mercoledì 26 dicembre 2012

L'abilità tattica di Monti

Subito dopo la conferenza stampa di Monti del 23 dicembre, molti commentatori hanno posto l'accento sull'attacco a Berlusconi e alcuni di essi hanno enfatizzato - chi con compiacimento, chi con polemica o con sarcasmi - il supposto “occhiolino” strizzato al PD.
Si può invece pensare che l'attuale premier, con la sua conferenza, abbia messo in mostra una capacità tattica in campo politico della quale pochi finora gli facevano credito. Egli si appresta ad essere competitore di Bersani e di Berlusconi. Ha un problema di spazio elettorale da conquistare: il vecchio centro dell'UDC è ormai rinsecchito e screditato, anche per la poca voglia di rinnovarsi; il nuovo centro pare ancora un germoglio al quale manchi il terreno per attecchire. Invece, sul centrodestra (che nel 2008 ebbe circa il 47% dei consensi) c'è una folla di elettori delusi dal berlusconismo i quali però pagherebbero oro pur di trovare il modo di far deragliare una seconda volta la “gioiosa macchina da guerra” del centrosinistra, il quale come nel 1994 si sente sicuro vincitore tanto da voler far credere che le prossime elezioni siano una mera formalità: si potrebbe anche non farle ed attribuire subito al PD quel 36% annunciato da D'Alema alla trasmissione  di Fazio e, con un'applicazione a tavolino della legge elettorale, dare d'autorità  a PD-SEL il 55% dei seggi parlamentari. E tutti a casa, felici di aver risparmiato un mucchio di soldi.
Se invece, con un inutile spreco,  le elezioni si dovessero tenere ugualmente nonostante vi sia già un vincitore autoproclamatosi,  Monti forse immagina  (se D'Alema si distrae un attimo) che, dei molti berlusconiani del 2008, alcuni andranno con Grillo, ma che buona parte di questi elettori moderati siano già suoi. Essi, decisi ormai ad abbandonare l'improponibile ex leader del centrodestra e non avendo altre alternative,  non hanno bisogno di lusinghe per appoggiare un'ipotesi Monti. E quindi, avrà pensato quest'ultimo, perché pagare un prezzo per avere ciò che già ci arriva gratis? Si può attaccare Berlusconi, sapendo che si perderà poco sul centrodestra.
Invece, attaccando Berlusconi si creano difficoltà a Bersani. Con un'agenda aperta alle istanze moderatamente progressiste, si confeziona una lusinga per le componenti meno radicali del PD, sia nel partito sia soprattutto nel suo bacino elettorale. Se molti moderati hanno votato Berlusconi solo perché diffidenti della sinistra, molti altri moderati hanno votato il centrosinistra solo perché disgustati dal berlusconismo. Questi ultimi vedono ora un leader a loro ideologicamente vicino, che non guarda con simpatia alla sinistra radicale e che contemporaneamente si mostra antiberlusconiano: è il massimo per chi finora ha votato  PD con un po' di mal di pancia e solo in odio a Berlusconi. Anche nell'elettorato della Lega vi sarà un'uscita dopo le ultime tristi vicende e, guarda caso, quell'elettorato – che non è certo di sinistra - è però nettamente contrario a Berlusconi. Per Monti, quindi, attaccare Berlusconi non pregiudica niente (o pregiudica poco) sulla forza attrattiva verso i berlusconiani delusi da Berlusconi, e nel contempo facilita l'acquisizione del consenso elettorale nell'area leghista antiberlusconiana e nelle componenti dell'elettorato PD che diffidano di Vendola e di Fassina non meno di quanto odino Berlusconi. Ed ecco che ora c'è Monti, alternativo alla sinistra radicale ma anche antiberlusconiano (tutte queste ripetizioni col prefisso “berlusc-” sono usate volutamente per rimarcare l'ormai soffocante oppressione di un refrain che ammorba – sia col “pro” sia con l' “anti” - la politica italiana da venti anni, nascondendo l'assoluta inadeguatezza della classe politica, come dimostrano i risultati ai quali si è giunti).
A conferma dei problemi che creerà al PD  l'iniziativa di Monti, anche per come è stata illustrata in senso antiberlusconiano, sta la sufficienza con la quale D'Alema, da Fazio, ha liquidato la “salita in campo” di Monti, e l'enfasi con la quale egli ha rappresentato Berlusconi come il vero ed unico avversario di Bersani. Beh, certo: senza avversari è facile vincere. E poi, si noti che già poche ore dopo la conferenza di Monti è giunta la notizia che Ichino ed altri quattro parlamentari del PD sono pronti a schierarsi con l'attuale premier. E' già iniziato lo smottamento?
Con buona pace di D'Alema, i competitori saranno quindi tre: Bersani, Berlusconi e Monti. In un normale Paese europeo, non ci sarebbe partita. Da noi purtroppo, dati anche i tempi ristretti, può darsi che invece la partita vi sia, e che il risultato sia ambiguo. Ma lo sarà temporaneamente. Infatti con l'iniziativa di Monti - anche per il modo col quale è essa stata presentata - si avvia una progressiva scomposizione del panorama politico e dell'offerta per gli elettori che porterà, tra l'altro, all'uscita di scena definitiva di Berlusconi, che sarà relegato a capo, un po' macchiettistico, di un ininfluente manipolo di parlamentari di estrema destra anti-euro ed antieuropeisti. Se invece, come vorrebbe D'Alema, la competizione fosse tra Bersani e Berlusconi,   questa volta prevarrebbe sì il primo, ma il secondo verrebbe di nuovo incoronato Capo Unico dell'Unica Opposizione (magari, pronto a rivincere la volta successiva), e si perpetuerebbe il disastro di questi ultimi venti anni. 

lunedì 17 dicembre 2012

"Eredità" di Lilli Gruber - Ed. Rizzoli


Il recente libro di Lilli Gruber è una storia romanzata di un periodo tormentato del Tirolo meridionale, il territorio di lingua tedesca compreso tra il Brennero e la Chiusa di Salorno.  Il cuore del romanzo è il periodo che parte dalla prima guerra mondiale, con la disfatta dell'impero austrungarico ed il passaggio di quelle terre all'Italia, e attraversa poi i tragici anni del fascismo e del nazismo, fino al secondo conflitto mondiale. Si tratta di una storia romanzata perché l'autrice prende spunto dalla storia della sua famiglia di parte materna, che era una delle più importanti di quella zona, per tracciare, col segno delle vicende di casa, anche quelle della sua terra, la “bassa atesina” posta al confine del mondo tedesco con quello italiano, il cui passaggio fisico, linguistico e culturale è dato dalla porta naturale della Chiusa di Salorno, il varco tra le montagne dopo Mezzocorona e prima Egna-Neumarkt, attraverso il quale passano, stretti a pochi metri di distanza, l'Adige, la ferrovia,  la statale e l'autostrada del Brennero.
La narrazione ha come fonte principale la vita e le testimonianze della bisnonna della Gruber, Rosa Tiefenthaler (cognome evocativo: letteralmente "della bassa valle"; e quella terra è chiamata appunto “bassa atesina” cioè bassa valle dell'Adige). Rosa è l'esponente esemplare di quel mondo asburgico geograficamente lontano dal centro dell'Impero ma completamente ed intimamente connaturato con esso. Una donna forte come le donne di montagna, intelligente, colta grazie anche allo stato sociale elevato della sua famiglia, moderna per tanti versi ma strettamente legata alla sua “Heimat” e quindi a tutto ciò che caratterizza questo sentimento, dal senso della comunità e della famiglia, all'attaccamento all'imperatore Francesco Giuseppe,  ad una religiosità connaturata, ma non per questo meno sincera e profonda.
La caduta del vecchio mondo e l'occupazione italiana vivono, silenziose e dolorose, nelle lacerazioni interiori di Rosa Tiefenthaler e nella sua capacità (che è solo delle donne) di tenerle racchiuse in sé a difesa della famiglia. La famiglia - una grande, commovente famiglia - è il cuore del romanzo storico; la famiglia e le radici, l' “Heimat” efficacemente descritta come qualcosa di più del concetto nostro di Patria: territorio natio, popolo del quale siamo espressione, usi e abitudini, paesaggi familiari, cultura, modi di vivere, religiosità, quel comune sentire, un'appartenenza, la zuppa di vino ed il Kaiserschmarren, un complesso di elementi umani fusi in un crogiuolo dal quale esce una lega che permea fortemente il Tirolo meridionale come tutto il mondo tedesco. Il suffisso “-heim” che ricorre in tanti toponimi e vocabili tedeschi, è un'applicazione del concetto lato di “Heimat”.
Sul piano storico, il merito dell'autrice è quello di aver descritto molto bene il rapporto tra i sudtirolesi, il fascismo ed il nazismo. Rapporto che nel libro viene spiegato partendo appunto dal concetto di “Heimat” proprio di un popolo accesamente antifascista perché oppresso ed occupato dagli italiani e perché testimone diretto delle nefandezze del regime; ma talora anche -  contemporaneamente, e quindi sorprendentemente per noi italiani - filonazista, nella speranza della riunificazione sotto l'egida del “Deutschtum” (la “germanicità”), una speranza coltivata anche a causa di informazioni frammentarie, errate e comunque lontane, sulle altre nefandezze di oltre Brennero. L'Anschluss hitleriano col quale la Germania si era annessa l'Austria, e quindi anche il Tirolo settentrionale stretto attorno ad Innsbruck, fu il seme che dette vita all'illusoria speranza di tanti sudtirolesi di un secondo Anschluss, quello che avrebbe dovuto riunire nel mondo tedesco anche il loro Tirolo passato all'Italia fascista, quello che aveva per capoluogo Bolzano. Ma quando Hitler scese in Italia per la visita a Mussolini, il suo treno passò veloce e a finestrini chiusi attraverso il Sudtirolo, lasciando con un palmo di naso i tanti che si erano radunati nelle stazioni e che si attendevano un fuhrer che si fermasse e si mostrasse, benedicente, per promettere la prossima riunificazione. Hitler aveva più a cuore di tenersi buono l'alleato Mussolini delle aspirazioni irredentistiche dei tirolesi. Ma in molti la speranza fu dura a morire; tra questi la stessa figlia minore di Rosa Tiefenthaler, Hella.

Parlando di queste vicende storiche, il lettore italiano non può che guardare con rispetto e vicinanza alla sorte che toccò al popolo tirolese: l'occupazione, l'imposizione linguistica, l'italianizzazione dei cognomi col paradosso di portare i fratelli a ritrovarsi con cognomi italianizzati diversi a seconda di chi ne aveva curato la “traduzione”, per finire con le “opzioni”, regola agghiacciante con la quale la Germania e l'Italia avevano concordato - ormai alla vigilia della disfatta nella guerra – che i tirolesi scegliessero: restare nella loro terra, accettando l'italianizzazione, o restare tedeschi, lasciando però lì tutto quel che avevano per migrare altrove – e chissà dove: Polonia, Romania, Ungheria - sotto l'egida del Reich. Trovata letteralmente diabolica (dal greco dia-ballo, separare. Il diavolo: colui che separa e divide l'uomo dalla sua radice spirituale). Ma per l'evolversi degli eventi  bellici le "Optionen" ebbero un'applicazione limitata.

E del resto dalla stretta porta di Salorno  non son passati solo soldati e guerrieri armati, ma  - in un senso e nell'altro - anche il meglio dei nostri due mondi. Vi sono passati Goethe e Mozart, non solo Hitler. Vi è passato il rinascimento italiano ed i suoi splendori, la grande musica tedesca ed il pensiero di filosofi immortali. Un'apertura tra le montagne - non una "Chiusa"! -  verso la quale si accorre da sud e da nord per incontrarsi in amicizia e far festa.        


Nella narrazione di Lilli Gruber vi è, da un lato, la partecipazione alla tragedia del Sud Tirolo italianizzato, e quindi l'ancoraggio alle sue radici ed alla sua "eredità" (sebbene l'autrice precisi di non sentirsi né italiana né tedesca, ma europea) e, dall'altro, l'assenza di ogni richiamo retorico alle posizioni nostalgiche, verso le quali traspare anzi un po' di fastidio.

Un libro molto bello ed istruttivo che - tra le altre cose - conferma quante conseguenze nefande e spesso irrimediabili porti con sé la pretesa di violentare un popolo nella sua intima essenza: il territorio, la lingua, il senso della propria comunità, la cultura. 

lunedì 26 novembre 2012

"Italiani di domani" di Beppe Severgnini (Rizzoli)



“Italiani di domani – Otto porte sul futuro” è l'ultimo libro di Beppe Severgnini ed è dedicato ai giovani. L'intuizione è nata nelle Università, nelle quali il giornalista del Corriere della Sera spesso porta il germe della propria esperienza e del proprio spirito di osservazione e di originale elaborazione, ma il prodotto che ne è scaturito non è rivolto ai soli universitari. Esso è diretto ai giovani di oggi, ai figli dei padri e delle madri nati negli anni '50 e '60, alla prole della nostra fallimentare generazione che molto ha consumato e niente ha costruito, la quale lascia solo molte macerie da sgombrare - e non solo quelle economiche.
Oltre la forma, in Severgnini come al solito accattivante, questo libro è una richiesta di perdono accorata, sebbene implicita e nascosta,  a nome di questa generazione, rivolta a chi - i nostri figli - dovrà porre rimedio a tanti disastri. Una richiesta di perdono che si cela dietro una serie di suggerimenti che nascono da un'analisi del presente  precisa ed impietosa, condotta su un tono a volte ironico e a volte appassionato, talora con una venatura di amaro, ma sempre colmo di speranza e di fiducia nella gioventù di questo inizio di millennio. Un incitamento commosso, da genitore a figlio e quindi denso di amore e di premura, di fiducia, di partecipazione e di tenero rispetto. Un invito che si svolge attraverso lo sviluppo di otto elementi, le otto “T”, secondo il gusto severgniniano degli elenchi: Talento/Siate brutali; Tenacia/Siate pazienti; Tempismo/Siate pronti; Tolleranza/Siate elastici; Totem/Siate leali; Tenerezza/ Siate morbidi; Terra/Siate aperti; Testa/Siate ottimisti.

 In realtà, a prescindere dalla lista, il libro è una lunga chiacchierata che un padre potrebbe fare col proprio figlio nel pomeriggio di una piovosa domenica autunnale, seduti sul divano di casa - un padre o una madre, l'uno o l'altra con un figlio o con una figlia, ovviamente.

Si parte con alcuni punti fermi di carattere generale: “Stabilite le vostre regole: non si ruba, non si mente, non si imbroglia”;“Il peccato più grave è convincerci dell'inutilità dell'onestà”; Compromessi: “qual è il metro di giudizio? Semplice: se diventassero pubblici, non devono metterci in imbarazzo.”

Sulle responsabilità dei cinquantenni-sessantenni nei confronti dei loro figli: “I vostri nonni bene o male, hanno ricostruito l'Italia; ma i vostri genitori – la mia generazione – non hanno agito con altrettanta lungimiranza”. Sempre su questo tema: “Il tornado della recessione vi ha accolto fuori dal porto ... Avete tra i piedi un po' di sessantenni rassegnati, di cinquantenni opportunisti ... Forza e coraggio: è l'atteggiamento che cambia l'umore, la vita e la storia. Se scegliete di essere sconfitti prima di aver perso, diventerete la generaciòn amargada la generazione avvilita. Suona bene, ma fa male.”

L'autore invita i giovani ad essere aperti al mondo e curiosi di apprendere, a non disperare di poter trovare un lavoro che soddisfi ad un tempo la propria passione e le proprie attitudini; dovendo scegliere, però meglio tener conto delle attitudini. Altro invito, prima sconcertante e poi fulminante: “Rinunciate ad un buon inglese (serve un inglese ottimo)”. “Fare meno cose, farle meglio. Dare tempo all'imprevisto e spazio alle novità”. Le radici hanno valore, prima o poi vi si torna, ma prima bisogna volare nel mondo: “...la provincia è bella e consolante. ... La provincia è un luogo dove si confezionano miti. ... La provincia italiana è questa combinazione di sensualità e normalità, grinta e mollezza, furbizia ed ingenuità, originalità e incoscienza, grandi progetti e – talvolta – piccoli orizzonti. Tenetela da conto, se ci siete nati e cresciuti. Scappate per tornare. Però, prima, scappate.” Ahi noi, poveri padri. Possiamo solo aggiungere: “Sì, però - dopo - tornate!”

Sul valore della lealtà nella della difesa delle proprie opinioni: “Trovare un modo di dar ragione alla propria parte anche quando ha torto! Questa è la sfida. Noi ragioniamo ... come uffici stampa dedicati ad un cliente che non ci paga ... Della nostra squadra non siamo solo tifosi, siamo avvocati difensori ... Dire la verità, nell'Italia faziosa, viene considerato un tradimento, se la verità danneggia la propria parte ... Quando parlate della vostra parte politica, della vostra azienda o della vostra professione o della vostra categoria, cercate di essere leali. L'obiettività non esiste; ma esiste la tensione per arrivarci, ed è questa che ammiriamo”.

Un libro per i giovani che ogni genitore vorrebbe aver scritto i propri figli; ma non ci sarebbe riuscito, perché non è facile avere quella dote che una studentessa di Parma, citata nelle ultime righe del libro, riconosce al “docente” Severgnini in raffronto ai docenti di quella Università: “... Sa perché veniamo in tanti alle sue lezioni? Non perché abbiamo letto i suoi libri o la vediamo alla televisione. Veniamo perché lei è il più vecchio di noi, e non il più giovane di loro.”

martedì 13 novembre 2012

Cinque sfumature di grigio

Il confronto su Sky tra i candidati alle primarie del centrosinistra non è parso un granché. I cinque contendenti sono sembrati un po' rigidi ed impalati, attenti soprattutto a seguire diligentemente, con dedizione curiale, la liturgia tradizionale di quella parte politica. Anche Renzi, che pure ha lanciato qualche fuochetto pirotecnico, ha tenuto un atteggiamento più sobrio e misurato del solito. E' probabile che Tabacci, Puppato, Renzi, Vendola e Bersani  siano stati condizionati dall'esigenza di dare agli spettatori un'immagine il più possibile unitaria(o forse si siano accordati preventivamente in tal senso), visto che è proprio la previsione della mancanza di coesione - alla luce delle precedenti esperienze degli effimeri governi Prodi - uno dei più rilevanti dilemmi dell'elettore ancora incerto.
Pur coprendo un'area di opinione abbastanza ampia, dall'ex berlusconiano Tabacci a Vendola,  i cinque hanno cercato di attenuare le differenze finendo quindi per confluire su una linea certo non univoca, ma comunque assai moderata almeno rispetto alle attese. Sintomatico  che i due più a sinistra (Vendola e Bersani), chiamati ad indicare una figura di riferimento, si siano richiamati a due personalità ecclesiali, un Cardinale ed un Papa. Puppato, anch'essa caratterizzata a sinistra con toni a volte un po' settari, ha fatto il nome di due donne ex parlamentari - una democristiana, Tina Anselmi, l'altra comunista, Nilde Iotti - entrambe cattoliche, come cattolici (ma non ecclesiali ) sono stati i riferimenti di Tabacci a De Gasperi e a Giovanni Marcora, punto di riferimento, quest'ultimo, dei democristiani lombardi della sua generazione, quand'egli era giovane.
Sui contenuti e sui programmi, il desiderio di piacere a tutti ha annacquato le risposte dei candidati e qui il grigiore ha raggiunto i livelli massimi, anche se ognuno ha proposto una propria angolatura dei singoli problemi. Ma si sa che ormai in Italia la politica non si occupa più di programmi, ma di propaganda e di posizionamenti tattici. Un po' più vivace la posizione sul "caso Marchionne", ma solo perchè la politica italiana -  come si diceva: priva di idee -  si scalda solo quando può assumere una persona - che già esiste e quindi non richiede lo sforzo di crearla - per ruotare intorno ad essa il panegirico o l'aggressione. Questo è meno faticoso di elaborare un'opinione originale ed efficace su un  problema reale.      
Più interessanti le risposte alle domande finali sulla coalizione che ciascuno dei cinque preferirebbe guidare se vincesse le primarie e le elezioni successive. La domanda, di per sé, poteva apparire oziosa, dal momento che i cinque si contendono l'investitura in "primarie di coalizione"  e quindi la coalizione dovrebbe essere quella nel cui perimetro si colloca la propria candidatura. Se uno di loro non gradisse la presenza nella coalizione di una delle forze delle quali sono espressione gli altri quattro, l'asino cadrebbe subito: costui non avrebbe titolo di concorrere alle "primarie", se è pronto a rispettare la coalizione solo a condizione che vinca lui,  o un candidato affine. 
La questione rappresenta un nodo particolarmente intricato. Nelle settimane scorse era parso che Vendola avesse qualche dubbio ad appoggiare un governo presieduto da Renzi ed una analoga perplessità, pur non espressa,  poteva essere immaginata anche in senso opposto.  Nel PD, poi, si ipotizzava che l'eventuale prevalere del Sindaco di Firenze, pur dello stesso partito, potesse causare una levata di scudi  di alcuni anziani ma ancora autorevoli esponenti: D'Alema aveva dichiarato apertamente che in caso di  vittoria di Renzi alle primarie avrebbe "dato battaglia". E sarebbe poi singolare immaginare una Rosy Bindi che accettasse un ministero sotto la guida di Renzi. Ma qui i candidati sono stati abili ed hanno circoscritto i propri distinguo all'eventuale rapporto con una forza extra-primarie come l'UDC,  chi per escluderla decisamente (Renzi e Vendola) o implicitamente (Puppato), chi  per accoglierla (Bersani), chi per fare il pesce in barile (Tabacci).
L'esito delle primarie del centrosinistra vedrà probabilmente prevalere Bersani (magari dopo un ballottaggio con Renzi), poichè l'apparato avrà il suo peso e gli esterni al PD disposti a votare Renzi avranno qualche difficoltà procedurale per esprimersi ai seggi, ma soprattutto qualche remora legata al desiderio di non assumere impegni, neppure morali, sullo schieramento da votare alle elezioni politiche qualora il centrosinistra non fosse guidato dal sindaco di Firenze, nell'ipotesi che nel frattempo l'offerta politica potesse arricchirsi di qualcosa di nuovo.   In caso di ballottaggio, poi, la naturale riduzione dei votanti  al secondo turno si tradurrà in un vantaggio per Bersani. 
Alle elezioni, data l'attuale offerta politica, pare inevitabile che pevalga la coalizione di centrosinistra guidata da Bersani ed è altrettanto probabile che essa però non raggiunga una forza elettorale tale da far scattare il premio di maggioranza (sul quale peraltro ancora si dibatte). In questo caso il risultato sarebbe certo: governo centrosinistra-UDC guidato da Bersani,  con Casini che, in cambio dell'appoggio determinante al governo  da parte dell'UDC ed alla "rinuncia" alla conferma di Monti come premier, verrebbe eletto Presidente della Repubblica dalla stessa maggioranza governativa. E' questo del resto l'obbiettivo evidente del leader dell'UDC. Ed è per questo che Casini ha votato col vecchio centrodestra per un premio di maggioranza alto e quindi difficilmente raggiungibile al momento attuale data la frammentazione del prevedibile consenso elettorale.  Infatti, se la coalizione di centrosinistra (PD-SEL-API-PSI) ottenesse il premio,  raggiungerebbe la maggioranza dei seggi in via autonoma e l'UDC non sarebbe decisiva. E se l'UDC non sarà decisiva Casini non avrà corrispettivi da offrire per chiedere in cambio il  Quirinale per sé stesso (in questo caso il "ticket" sarebbe:  Monti Presidente della Repubblica e Bersani Presidente del Consiglio).  
Ma si ha l'impressione che i giochi non siano ancora fatti del tutto.
La scomparsa del PDL ha lasciato orfani di una casa molti elettori che, pur ormai nauseati dal berlusconismo, neppure sono propensi a votare per il centrosinistra. Se nulla si muove, finiranno per astenersi (nei sondaggi ora sono catalogati tra gli "indecisi" e come tali sono forse il primo partito), ed allora si avvererà il successo del centrosinistra. Se invece - ma il tempo scarseggia - qualcuno creerà una nuova casa, più presentabile del PDL, allora i giochi potrebbero riaprirsi: non certo per un successo maggioritario di quest'area moderata ancora da creare,  ma perché essa potrebbe assorbire consensi almeno tali da far mancare una maggioranza alla coalizione in itinere  "centrosinistra-UDC".  E qui allora non resterebbe spazio che per un "Monti bis" con appoggio bipartisan e con un esponente del centrosinistra al Quirinale, dato che quest'ultimo schieramento, che avrà probabilmente la maggioranza relativa, non potrà restare del tutto a bocca asciutta . Questa è l'ipotesi peggiore per le ambizioni presidenziali di Casini.

Se invece le primarie del centrosinistra le vincesse Renzi ...

domenica 11 novembre 2012

Politica, truffe e ricatti.


In questi giorni si dibatte sulla legge elettorale e ci si accapiglia su quale debba essere il limite per aver diritto al premio di maggioranza. Dopo l'ultimo passaggio, pare che sia stato fissato al 42,5%: la coalizione che raggiunga tale soglia, avrà in dono un ulteriore 12,5% e quindi si vedrà assegnare il 55% dei seggi della Camera e del Senato (le altre forze, ovviamente, avranno una rappresentanza inferiore a quella che spetterebbe loro in relazione ai voti ottenuti).

Quello che sorprende è che a molti tale soglia del 42,5% del consenso elettorale per avere il 55% dei seggi parlamentari paia troppo alta. Però nel 1953 la sinistra infiammò le piazze contro quella che fu definita la “legge-truffa” di De Gasperi e Scelba, la quale attribuiva un premio del 10% alla coalizione (allora centrista: DC-PRI-PSDI-PLI) che avesse ottenuto almeno il 50% dei voti. Quella era una legge truffa. Oggi invece sarebbe una legge truffa quella che non consente alla coalizione che abbia appena il 30-35% dei voti di avere in premio la maggioranza dei seggi come se avesse ottenuto il 55%.
Il concetto di “truffa” deve aver subito una profonda evoluzione, negli ultimi sessantanni.


In un sistema di democrazia parlamentare quale è quello previsto dalla nostra Costituzione, in teoria la soluzione elettorale migliore sarebbe quella del proporzionale puro, senza soglie d'ingresso - poichè tutte le opinioni presenti nella società hanno diritto ad una proporzionale eco in Parlamento -  e senza premi che diano la maggioranza a chi non l'abbia nel Paese. Tuttavia, dovendo fare i conti con l'esigenza della governabilità, si può accettare (a malincuore) una soglia minima di ingresso ed un premio alla coalizione che manchi solo di poco il 50,1%. Ma non certo un premio che dia il 55% dei seggi a chi abbia ottenuto solo il 30% di consenso da parte degli elettori: questo non sarebbe un premio, questo sarebbe un golpe. Probabilmente anche il Mussolini ormai in rotta aveva ancora almeno il 30% di consenso nel Paese, però avevano ragione i partigiani.
E poi, dov'è scritto che una coalizione di minoranza debba avere per sé tutto il potere col pretesto di dovere assicurare la governabilità? Rinunzi ad una parte del proprio programma (visto che non è stato condiviso dalla maggioranza del Paese) e cerchi un'alleanza con altri in Parlamento.


E' vero che questo favorisce i ricatti delle forze intermedie che, pur avendo uno scarso seguito elettorale, possono far pendere la bilancia da una parte o dall'altra in Parlamento tenendo sotto scacco forze rappresentative di ben maggiori quote di consenso. Questo è un male, ma a ben vedere forse è il male minore rispetto a quello di avere un Parlamento occupato da una minoranza che si appropria per cinque anni di tutto il potere. E poi, se chi ha il 7% ricatta chi ha il 45%, potrà a maggior ragione accadere anche il contrario. E gli elettori, di fronte a simili comportamenti, potranno tenerne conto alle elezioni successive.


Del resto, non pare che gli attuali ultimi sistemi elettorali basati su premi di maggioranza (di cui hanno alternativamente beneficiato centrodestra e centrosinistra) abbiano evitato ribaltoni e ricatti, e quindi instabilità dei governi. Abbiamo visto gruppi di parlamentari eletti in una coalizione staccarsene e passare all'oppozione, ed essere sostituiti nell'appoggio al governo da parlamentari eletti con l'opposizione. I ricatti ed i mercanteggiamenti non si evitano con le leggi elettorali: semmai si puniscono col voto degli elettori.








venerdì 2 novembre 2012

Una crocetta sulla mafia.


Il neo eletto Presidente della Sicilia in una delle sue prime esternazioni ha dichiarato che con la sua vittoria la mafia ha chiuso e può cominciare a fare le valigie. Certo, come dubitarne ?

Però, gli astenuti questa volta hanno superato il 50% ed alle urne è andato solo il 47% dei siciliani.  Sembra un po' strano che, alle elezioni nell'isola, la mafia si astenga per puro spirito di neutralità tra le parti in causa: sarebbe la prima volta. Forse, allora, Crocetta è arrivato tardi: la mafia già prima aveva fatto le valigie e se ne era andata ?   
Intanto  a Crocetta, pur eletto presidente, mancano i voti per formare una Giunta (quella che dovrebbe far sloggiare la mafia dalla Sicilia, se c'è n'è ancora rimasta qualche traccia) e pare che, per questo, stia pensando ad una alleanza con l'ex presidente Lombardo e con Miccichè. Alla luce di queste notizie,  si può immaginare che gli ultimi coaguli mafiosi, spaventati a morte da simili giustizieri, stiano anch'essi precipitosamente fuggendo dall'isola...

Che dire ? Tutti con Crocetta, ovviamente, ma ....

venerdì 26 ottobre 2012

"Geronimo il cieco e suo fratello" di Arthur Schnitzler(Sellerio Editore Palermo)


Non è facile trovare questo libruccino pubblicato da Sellerio nel 2000 e che reca ancora il prezzo in lire (diecimila), ma vale la pena cercarlo. “Geronimo il cieco e suo fratello” è una  parabola con la quale lo scrittore e drammaturgo austriaco Arthur Schnitzler (Vienna 1862-1931) indaga il rapporto tra due fratelli, soprattutto attraverso il “monologo interiore” di uno dei due - Carlo, il vedente - e mette in luce la forza devastante del sospetto, la disperante impotenza di chi ne è vittima e la facilità con la quale questo germe letale può essere instillato per pura e gratuita perfidia a sconvolgere i rapporti umani, anche i più stabili.
L'azione si svolge nell'arco di un paio di giorni, lungo la strada dello Stelvio che collega l'Italia col Tirolo, il mondo latino con quello tedesco. Sta finendo l'autunno ed arriva il primo freddo, il vento, la pioggia, la neve. In una locanda lungo la strada percorsa dalle carrozze dei viaggiatori, Geronimo il cieco e suo fratello maggiore, Carlo, mendicano qualche soldo dai viandanti. Geronimo ha imparato a suonare la chitarra e canta, Carlo lo assiste e porge il cappello, sotto l'occhio bonario e tollerante dell'oste e della cameriera. Geronimo dipende da Carlo per la sua invalidità; Carlo dipende da Geronimo non per i pochi soldi raggranellati grazie a quest'ultimo, ma perché solo nella dedizione completa ed assoluta al fratello egli trova conforto per il rimorso che lo rode: Geronimo non è cieco dalla nascita, la cecità fu causata dallo stesso Carlo durante un innocente gioco, quando erano ragazzi. Carlo aveva meditato anche il suicidio, per punirsi, ma poi aveva considerato che l'unico modo di risolvere il suo problema era quello di dedicarsi a Geronimo per tutta la vita, supplire in tutto ciò che il fratello non poteva fare, immedesimarsi in lui fin quasi a fargli usare la sua stessa persona per rimediare al male che gli aveva provocato. Questa, la sua missione. Durante quegli anni, la consapevolezza di essere il sostegno indispensabile del fratello e soprattutto quella di avere il suo affetto, ed il perdono, nonostante il danno che gli aveva arrecato, erano stati conforto costante per Carlo - unico, imprescindibile motivo di vita.
Passano i viandanti, si fermano nella locanda, qualcuno prende una camera per la notte. Chi beve, chi mangia e chi gioca. Tutti ascoltano il suono ed il canto di Geronimo e tutti lasciano una moneta nel cappello di Carlo, qualche spicciolo per due poveri mendicanti. Ma ecco che arriva, inatteso, il germe malefico. Un viandante, sceso dalla carrozza, lascia una misera monetina nel cappello di Carlo e, poco dopo, quando questi non sente, sussurra nell'orecchio di Geronimo: “Non farti ingannare, ho dato al tuo compare una moneta da venti franchi”.  Una monetona d'oro.
Carlo si rende subito conto del mutamento intervenuto nel fratello; dapprima non capisce, ma poi Geronimo lo accusa apertamente di approfittare della sua cecità, di ingannarlo sui soldi racimolati, di usarli per sé e per acquistare regali per le donne, anche per la cameriera della locanda. Improvvisamente crolla il mondo precario che Carlo faticosamente si era costruito e nel quale aveva trovato l'unica sua ragione di vita: gli appare subito impossibile convincere il fratello: in che modo può farlo ? Tutto è perduto, anzi – si insinua in lui una sconcertante presa di consapevolezza – forse Geronimo ha sempre pensato che Carlo lo ingannasse, e non lo ha mai perdonato per essere stato la causa della sua cecità. Carlo si è dunque illuso di aver trovato salvezza nel perdono del fratello, senza averlo mai avuto?
Inizia qui il monologo interiore di Carlo, che cerca una via di salvezza pur nella pessimistica convinzione che non servirà a nulla, o che addirittura porterà a peggiori conseguenze. Ad un certo punto crede però di essere riuscito, miracolosamente, nell'impresa, ma il destino inesorabile lo sta attendendo seduto sul ciglio della strada, mentre assieme a Geronimo sta scendendo a valle dopo aver abbandonato in tutta fretta la locanda dove avevano passato la nottata sull'umido giaciglio, per il quale l'oste non aveva voluto neppure essere pagato. Tutto allora pare perduto, ma proprio quella sconfitta mette in azione la “vista interiore” di Geronimo, al quale d'improvviso -  e proprio a causa di quell'evento inatteso lungo il percorso - appare quel che è accaduto.

Breve ed appagante lettura di una ricerca introspettiva che fa pensare a Sigmund Freud, contemporaneo di Schnitzler. Scrivono nella nota introduttiva all'edizione di Sellerio i curatori Benvenuto e Iadicicco: “E tuttavia è noto che tra il fondatore della psicoanalisi e lo scrittore si stabilì un singolare rapporto: basato su reciproci interessi, analoghe curiosità. Ma il loro fu uno scrutarsi a distanza ... Un misto di simpatia e sospetto. Improvvisamente, in occasione del sessantesimo compleanno dello scrittore, Freud si decise a rompere il ghiaccio .... Scriveva il padre della psicoanalisi: 'Desidero farle una confessione, che Lei avrà la bontà ed il riguardo di tenere per sé. Mi sono sempre chiesto con tormento per quale ragione io non abbia mai cercato in tutti questi anni di avvicinarla e di aver un colloquio con lei ... La risposta a questa domanda contiene la confessione che a me sembra troppo intima. Io ritengo di averla evitata per una specie di timore del sosia. ... ogniqualvolta mi sento immerso nelle Sue belle creazioni, ho sempre creduto di riconoscere dietro la loro parvenza poetica gli stessi presupposti, interessi ed esiti che sapevo essere miei ... Così ho avuto l'impressione che Lei attraverso l'intuizione – ma in verità grazie a una raffinata autopercezione – sapesse tutto ciò che io ho scoperto con un faticoso lavoro sugli uomini”.

domenica 21 ottobre 2012

Senescono, ma non se n'escono.


Tempi di elezioni. Un noto deputato non si ricandida, un altro ancor più noto ci sta pensando ed intanto, a sua insaputa, fioccano le firme perché resti. Poi, stillando veleno da ogni pelo dell'incanutito baffo, rimanda ogni decisione al momento in cui si saprà chi avrà vinto le primarie del suo partito: in un caso non si ricandiderà, nell'altro "darà battaglia". Un'altra deputata fa sapere di aver deciso di non ricandidarsi, e dopo qualche giorno viene nominata presidente di un museo. Invece sull'altro fronte, se c'è ancora, non se ne parla neppure di rinunciare ad una candidatura - anche perché da quella parte il candidarsi o meno per molti sarà ininfluente.
Il problema non pare essere l'età o da quante legislature si siede in parlamento. Anche questo ha il suo peso, naturalmente, perché è salutare che l'aria ogni tanto venga rinnovata. Ma se oggi avessimo ancora, vivi e vegeti, un De Gasperi, un Nenni, un La Malfa, un Vanoni, un Saragat, un Pertini, un Terracini,  ci si potrebbe anche sentire rassicurati dal loro perdurare ai vertici della politica. Furono uomini che risollevarono l'Italia dalle macerie: passione e capacità, ed i risultati si videro nell'arco di pochi anni. Invece questi parlamentari “vintage” di destra, di centro e di sinistra, dei quali si parla oggi, hanno trovato un'Italia ricostruita, ci hanno scorrazzato per venti o trent'anni (governo, regioni, province, comuni) ed i risultati anche in questo caso si vedono: l'hanno distrutta. Alla luce dello stato attuale del Paese, la loro esperienza - questa loro lunga esperienza - è veramente una dote sulla quale si può fare affidamento ? Quei signori fanno bene a ritirarsi a vita privata, ma non per la loro senescenza:  perché sono inadatti a governare. Lo hanno già ampiamente dimostrato esercitandosi per alcuni decenni. Vogliamo che continuino, non ci basta ancora ?

Dare e avere


Domenica scorsa la Chiesa ha letto il passo del Vangelo di Marco nel quale Gesù invita un uomo ricco, che gli chiede cosa deve fare per avere la vita eterna, a seguirlo dopo aver donato tutto quel che ha. Gesù lo incalza ad abbandonare i suoi beni terreni e a seguirlo. Ma l'uomo si fa scuro in volto e se va rattristato.
A distanza di sette giorni, il Vangelo di Marco letto oggi nelle chiese parla di Giacomo e Giovanni che chiedono a Gesù di concedere loro il privilegio di sedere in gloria uno alla sua destra ed uno alla sua sinistra, ricevendo in risposta che chi vuole primeggiare sarà schiavo di tutti, e che solo chi si fa servitore sarà grande.
I due passi evangelici sono legati in un mirabile contrappunto. Nel primo, l'immagine che ci viene offerta - raramente accolta, è vero - è quella di chi si spoglia di quel che ha per mettersi nella sequela di Cristo. Nel secondo, al contrario, chi si è messo nella sequela di Cristo chiede, per ciò stesso, una ricompensa: sedere alla sua destra e alla sua sinistra, primeggiare gloriosamente tra gli altri.
Due atteggiamenti opposti: improntato al dare, il primo; all'avere, il secondo.
Se ci guardiamo intorno, vediamo anche oggi tanti uomini che di fronte alla prospettiva di abbandonare tutto quel che hanno si fanno scuri in volto e se ne vanno; non sempre rattristati, è vero, ma quando lo sono resta loro almeno un pensiero fertile intorno al quale riflettere per tutta la vita. Ma vediamo anche tanti uomini che, senza aver abbandonato quel che avevano, si dicono nella sequela di Cristo convinti di aver diritto, per ciò stesso, ad una ricompensa; talora ne sono tanto convinti da prendersela da soli. Basta guardare alla politica, e non solo.

martedì 9 ottobre 2012

Riflessioni sulle primarie


Mentre ci avviciniamo alle elezioni del 2013 il dibattito politico è assorbito dalle primarie del centrosinistra. Vi è un gran fervore ed un crescente interesse, non solo tra gli elettori tradizionali del centrosinistra ma anche tra gli altri. Più se ne parla, più ci si riflette; più ci si riflette, più sono gli interrogativi e le perplessità che vengono alla mente.
Già Eugenio Scalfari, tempo fa in televisione, osservò che finché non si conosce la nuova legge elettorale (maggioritaria oppure proporzionale) non ha senso indire “primarie”. Infatti, secondo il fondatore di Repubblica, se la nuova legge elettorale fosse di tipo proporzionale, non avrebbe diritto di accesso una designazione preventiva da parte di un partito o di una coalizione, poiché la maggioranza parlamentare si potrebbe formare solo dopo i risultati, e quindi anche il nome di chi dovrebbe guidarla non potrebbe che dipendere da quei risultati, tra l'altro in ossequio al dettato costituzionale che attribuisce al Presidente della Repubblica (e non alle primarie) la funzione di designare il Presidente del Consiglio.
L'obiezione di Scalfari è formalmente valida, ma essa a ben vedere sarebbe richiamabile anche con una legge elettorale maggioritaria sul tipo di quella adesso in vigore. E' vero che, in questo caso, vi sarebbe una coalizione formatasi prima delle elezioni, e questa coalizione quindi ben potrebbe accordarsi preventivamente anche sulla persona del premier, ma se i dubbi di Scalfari derivano dalla prerogativa costituzionale riservata al Presidente della Repubblica (vincolato solo dalla scelta di una persona in grado di formare un governo che ottenga la fiducia del Parlamento) il dubbio di legittimità rimane ugualmente. Secondo questa impostazione formalistica, nel nostro Paese le primarie per la designazione del premier sarebbero del tutto ininfluenti a prescindere dal tipo di legge elettorale e potrebbero divenire legittime solo a seguito di una modifica della Costituzione che vincoli il Presidente della Repubblica a nominare capo del governo colui che lo schieramento vincitore abbia designato per quel ruolo prima delle elezioni. Senza questa modifica, le primarie sarebbero ammissibili solo con effetti interni al partito che intende ricorrervi: per eleggere il segretario, ad esempio.
Per salvare le primarie con effetti governativi occorre quindi inquadrare questo utile strumento di democrazia nell'attuale assetto costituzionale: ciò vuol dire dover considerare che l'esito delle primarie per la designazione del premier non è mai vincolante per il Presidente della Repubblica, il quale, nelle usuali consultazioni coi gruppi parlamentari, prenderà semmai nota del fatto che in Parlamento può esservi una maggioranza disposta ad accordare la fiducia ad un governo guidato da quella certa persona, quella cioè che abbia vinto le primarie della coalizione maggioritaria, o quelle del partito predominante in detta coalizione, se le primarie sono state “di partito” e non “di coalizione”.
Vi è poi un secondo aspetto di perplessità legato alle attuali primarie del PD. Quelle in corso sono definite “primarie di coalizione”: il vincitore sarà riconosciuto capo della coalizione e come tale sarà indicato concordemente al Presidente della Repubblica anche come il capo del governo, se la coalizione otterrà la maggioranza parlamentare. Ciò vuol dire anche che tutti i partiti della coalizione possono concorrere alle primarie con propri esponenti, anche più di uno per partito. Dato che le primarie del centrosinistra sono in corso, con candidature già presentate o in via di presentazione da parte di persone appartenenti a partiti diversi (al momento, Bersani, Renzi e Puppato per il PD, Vendola per SEL, Tabacci per API), si dovrebbe dedurre che questi partiti abbiano già stretto un accordo di coalizione, magari assieme ad altri che però non presentino candidati alle primarie. Invece non risulta che sia così. Non si è ancora formata nessuna coalizione di centrosinistra: essa semmai la si può solo desumere risalendo, dai candidati che si sono finora presentati, ai rispettivi partiti di appartenenza. Essa è una coalizione non solo ipotetica, ma ancora aperta: se Fini e Casini si candidassero, la coalizione si estenderebbe anche a FLI e UDC ? E SEL rimarrebbe ? A differenza della prima questione (rapporto tra primarie e legge elettorale) questa non è una questione solo formale, ma anche e soprattutto sostanziale. Il presupposto delle primarie di coalizione è che il vincitore sia il candidato di tutta la coalizione per guidare il nuovo governo e che tutta la coalizione voti la fiducia al governo presieduto da quella persona. Ma se, per ipotesi, in caso di vittoria di Renzi, SEL, già prima delle elezioni, si dichiarasse indisponibile, la coalizione perderebbe subito un pezzo. Ma quel pezzo aveva partecipato alle primarie di coalizione, influendo sul risultato (senza Vendola e senza SEL, ripartendo i voti tra meno candidati, forse Bersani avrebbe potuto prevalere su Renzi). Si dovrebbero allora ripetere le primarie?
Ed infine, se le primarie dovesse vincerle Renzi e Bersani venisse sconfitto, potrebbe il PD presentarsi alle prossime elezioni politiche con un segretario "azzoppato" in modo così clamoroso ? Se Renzi vincesse le primarie, vorrebbe dire che l'elettorato di centrosinistra in maggioranza sposa la sua impostazione; e quindi, come potrebbe l'attuale apparato, che egli combatte, restare al suo posto come se nulla fosse ? Egli vincerebbe su un fronte di rinnovamento del partito, ma sul partito non  avrebbe titolo di mettere parola, perchè il segretario resterebbe Bersani. La maggioranza del centrosinistra, se preferirà Renzi, avrà dichiarato di volersi liberare di D'Alema, Bindi, Marini ecc. ma questi resterebbero tranquillamente al loro posto, dato che Renzi sarà stato designato come possibile premier e non come segretario al posto di Bersani. Forse la via era un'altra. Bisognava mantenere la norma statutaria che prevedeva, in caso di primarie di coalizione per il premierato, che il PD vi partecipasse solo col suo segretario in carica e, in questa prospettiva - considerato che l'elezione di Bersani è ormai "vecchia" - si doveva indire un congresso ed elezioni primarie per il nuovo segretario, che, fresco di investitura, si presentasse alle primarie di coalizione per il governo. Se avesse vinto Bersani, nel partito tutto sarebbe proseguito come prima ed il segretario, in quanto tale, avrebbe poi partecipato alle primarie di coalizione per il suo partito, versimilmente vincendole. Se avesse vinto Renzi, nel partito tutto sarebbe cambiato col nuovo segretario, che, in quanto tale, avrebbe poi partecipato alle primarie di coalizione. 
Il fatto che siano state indette “primarie di coalizione” per il premierato con una coalizione ancora in itinere, e che poi si dibatta più su questioni di partito che di governo, è quindi motivo di seria perplessità, ma – volendo – anche di una conferma: l'approssimazione e l'inadeguatezza della nostra attuale classe politica.

martedì 11 settembre 2012

"L'isola" di Sàndor Màrai (Ed. Adelphi)


Il dottor Askenasi, docente di greco antico, sta facendo un breve viaggio sulla costa adriatica: ha deciso di prendersi due settimane di riposo, “in un posto tranquillo”. Lui ha sempre preferito i “posti tranquilli”, quelli dove non va nessuno perché è certo che ci si annoia. A lui del resto piace annoiarsi, tutta la sua vita fino ad allora (ha 48 anni) è stata una noia cercata, un'assennatezza esasperata, un rifuggire i divertimenti. Conoscendolo, i suoi amici gli hanno appunto consigliato “un posto tranquillo” per passare un paio di settimane allo scopo di superare il delicato momento causato da problemi sentimentali. La tumultuosa – incredibile per lui ! - relazione con la giovane ballerina conosciuta a Parigi gli ha fatto abbandonare la moglie e la figlia e lo ha consegnato ad una vita che non è la sua, ma che solo con grande fatica alla fine abbandona. Attende delle risposte, Askenasi, ma la giovane e bella Eliz non gliele dà.
Viktor Hector Askenasi è quindi in viaggio solitario, per mare, verso le isole greche che aveva visitato da giovane. Ma all'improvviso - cosa per lui insolita - decide di cambiare programma. Lo troviamo che soggiorna in un albergo pretenzioso, l'Hotel “Argentina”: già villa di un nobile locale in disgrazia, trasformata in un albergo che non riesce a mantenere i fasti che la residenza ha avuto in passato. Qui non si fa coinvolgere nella chiassosa e variegata compagnia degli ospiti dell'albergo, anch'essi pretenziosi ma di terz'ordine a testimoniare quanto sia decaduta la vecchia, splendida villa sul mare. Un afoso pomeriggio, dopo pranzo, nota una donna bella e misteriosa,  anch'essa ospite solitaria, che alla reception chiede la chiave della sua camera con voce insolitamente alta, come se volesse farsi sentire da lui, come se volesse fargli sapere il numero della sua camera.
Neppure la misteriosa ospite dell'Argentina darà ad Askenasi le risposte che attende da una vita. Egli, del resto, non avrà neppure il tempo di porgliele.
Ma da questo episodio troverà la forza di farle a chi può dargliele veramente, le risposte, dopo essere approdato, a tramonto inoltrato, dopo mezzora di barca a remi, sull'isola antistante (Lacroma, davanti a Dubrovnik, anche se il nome dell'isola non viene citato), un rettangolo irregolare disabitato con alcuni ruderi di un antico monastero e i resti del giardino di Massimiliano d'Asburgo. Sul punto più alto dell'isola, dal quale si distinguono i bastioni di Dubrovnik e le case della città, Askenasi passa la notte a fianco di una pietra regolare che potrebbe essere un altare pagano, e qui, guardando il cielo nerissimo e senza stelle, trova tutte le domande da fare. Ma non trova le risposte.
Il romanzo fu scritto nel 1934, quando Màrai aveva trentaquattro anni, e quindi un anno prima di "Confessioni di un borghese", autentico capolavoro dello scrittore ungherese  (su questo blog, post del 12.1.2012).  Nell'opera, che non è tra le migliori di Màrai, si ritrovano i temi ed il registro degli altri romanzi meglio riusciti come “Le Braci”, “Divorzio a Buda” (su questo blog, post del 7.9.2011) e “L'eredità di Eszter” (su questo blog, post del 29.10.2011):  l'esasperato sondare i più nascosti recessi dell'animo con una straordinaria capacità descrittiva ed una grande padronanza della “parola letteraria”, sul filo del consueto tema: la ricerca assillante di una risposta inseguita per tutta la vita - la fase finale di questa ricerca, quando il protagonista crede di aver raggiunto chi può dargliela.

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sabato 8 settembre 2012

Cosa ci aspetta


In uno dei suoi migliori articoli sul Corriere della Sera, Michele Ainis ieri ha delineato con sobria ironia il futuro scenario della politica italiana, quello che dovrebbe trovare attuazione nel 2013. Da quel che si sa negli ambienti ben informati, i giochi sono già fatti e gli accordi quasi conclusi: Prodi Presidente della Repubblica, con l'eventuale alternativa di Casini, se l'UDC dovesse essere decisiva per la futura maggioranza, Bersani Presidente del consiglio e ministro dell'Economia, D'Alema agli Esteri (o terzo incomodo per il Quirinale, non si può mai sapere come andranno queste cose ...), Letta allo Sviluppo Economico, Veltroni Presidente della Camera, a Bindi un ministero importante, magari gli Interni, o la Giustizia, visto che lei stessa si definisce “giurista”, o forse, chissà, quarto incomodo per il Quirinale: è bene essere forniti di alternative pronte. Una lista ineccepibile, tutti al loro posto.
Giustamente Ainis osserva che i big della politica italiana (quelli ovviamente della parte che presumibilmente vincerà: gli altri non possono che stare a guardare) con lodevole tempestività hanno già quasi ultimato il lavoro, così che all'indomani delle elezioni la “macchina da guerra” edizione 2013, questa volta forse meno "gioiosa" di quella del 1994, procederà, rapida e senza tentennamenti o defatiganti trattative, a subentrare al governo tecnico con un nuovo governo eletto.
Eletto ? Ma a che servono le elezioni, si chiede sarcastico Ainis, se il governo da eleggere è già completato e tutti sono d'accordo. Perché vogliono venirlo a chiedere a noi, come comporre la lista dei ministri ? La domanda di Ainis è evidentemente provocatoria oltre che retorica. Questa volta non si vede come si possa ripetere l'inattesa debacle del 1994, quando si avverò la beffa di un Berlusconi appena sceso in politica. Un eventuale successo di Grillo potrà semmai render felice Casini, il quale - divenendo in questo caso decisivo il sostegno dell'UDC ad una maggioranza PD-SEL - reclamerà per sé il Quirinale. E così - sotto sotto - Casini è forse il più convinto sostenitore di Grillo, oltre che della conferma di Monti  a Palazzo Chigi, per avere un concorrente in meno. No, non ci sono altri rischi, per il centrosinistra, questa volta, data anche l'ormai assodata impresentabilità della destra.
Quindi è normale e anche lodevole anticipare i tempi da parte dei dirigenti dello schieramento destinato a prevalere secondo quella logica dell'alternanza che dal 1994  ha sempre fatto vincere chi era all'opposizione - forse più per “merito” del governo precedente che per i propri.
Semmai, c'è da chiedersi che razza di alternanza sia questa, nella quale i posti vengono scambiati sempre tra le stesse persone. Che politica è mai questa, nella quale ogni capacità è esclusivamente rivolta all'accaparramento dei posti di comando e lì si esaurisce: non ne resta un briciolo per esercitare il comando se non allo scopo di perpetuare il potere conquistato. E' vero che per le cariche di responsabilità istituzionale, sempre più esposte alla ribalta internazionale, non si può ricorrere a dei pivelli, per quanto probi e capaci (ammesso poi che lo siano). Ma questa è gente che si rigira le stesse poltrone da un quarto di secolo e più. Tutto è cambiato negli ultimi trent'anni: sistema elettorale, sigle dei partiti, aggregazioni, alleanze e, sul, piano sostanziale, sono cambiati i problemi dei cittadini e gli approcci e gli strumenti disponibili per risolverli, sono mutati gli assetti internazionali e l'intero scenario mondiale. E' caduto persino il muro di Berlino, nel frattempo. La società italiana è radicalmente cambiata dagli anni ottanta a oggi. Ma la politica è sempre in mano agli stessi: negli anni '80 (regnante ancora Breznev!) e nei primi anni '90 in Italia erano già in auge D'Alema, Prodi, Veltroni, Bindi, Fini, Casini, ed i tre leader massimi di un tempo (il CAF: Craxi-Andreotti-Forlani) sono oggi fuori gioco solo per motivi per così dire oggettivi, perché altrimenti ... Oggi è fuori gioco persino Berlusconi, che si presentò come il “nuovo” nel 1994 e convinse molti elettori che era giunto il momento di sbarazzarsi del vecchio modo di fare politica, quello appunto dei D'Alema, dei Veltroni, che gli preesistevano... E da allora saranno passati 19 anni, nel 2013 imminente. Ora il vecchio satrapo viene rottamato, ma i “vecchi” che lui cercò di rottamare si vestono da giovani e – dopo essere stati in Parlamento per oltre un quarto di secolo, coi risultati che vediamo –  ci espongono le loro idee e proposte per risolvere i problemi del Paese. Perché, allora, non sentire in proposito anche Agostino Depretis e Urbano Rattazzi?
In un'intervista di pochi giorni fa D'Alema, per rispondere ad una domanda sul rinnovamento del partito, ha replicato, col suo superiore tono forbito, professorale ed oracolare, che il PD ha ora un segretario che appartiene "alla generazione successiva". Sono veloci, le generazioni per D'Alema: lui è del '49, mentre Bersani è del '51.
Quella del PD che con tanta protervia si aggrappa alle posizioni che detiene da anni è una classe dirigente che si è fatta battere da Berlusconi per ben tre volte: 1994, 2001 e 2008. Quando ha vinto (1996 e 2006) lo ha fatto per il rotto della cuffia e quindi sempre in modo effimero. Bravi e capaci, non c'è che dire. E vogliono continuare.
Ma il nostro destino pare ormai ineluttabile; per il momento non ci sono purtroppo ragionevoli soluzioni alternative e le uova nel paniere potrebbe romperle, ormai, solo la bomba Renzi, con scenari del tutto imprevedibili: nell'ipotesi, remota, che Renzi vincesse le primarie del PD, quali alleanze si presenterebbero alle elezioni e quali risultati si avrebbero ? Questa classe dirigente ha fatto sempre terra bruciata intorno a sé eliminando ogni possibile concorrente (gliene è sfuggito uno solo, ma è il più improbabile per il ruolo; e poi non è detto che di qui a qualche mese non riescano ad aver ragione anche di lui). Hanno fatto terra bruciata approfittando della nostra distrazione, mentre loro erano invece attentissimi. Hanno contato sul nostro tifo da stadio. Ci siamo appassionati di queste persone, delle cose che dicevano. Ci siamo accapigliati tra di noi per loro. Per il "pensiero" di D'Alema e di Rosy Bindi contro quello di Gasparri o di La Russa... Un "pensiero", l'uno e l'altro, lontano mille miglia dai problemi delle persone. Un "pensiero" che non dovrebbe esser tale da poter sconvolgere la coscienza di nessuno... Com'è stato possibile ? La colpa è nostra. Vogliamo continuare ? E se non  vogliamo continuare, che fare ? Non c'è più tempo per fare qualcosa di serio prima delle prossime elezioni. Ma per cominciare a pensarci per dopo, sì.

venerdì 7 settembre 2012

Pregiudizi e legittimità dell'opinione contraria

Nei vari dibattiti spesso risuonano i sani principi liberali che ammoniscono: “tieniti pure i tuoi ideali; io ho i miei e ho il diritto di vederli affermati; se non ti piacciono, nessuno ti obbliga a seguirli”, e “la mia libertà cessa (solo) dove inizia la tua”.
Principi benedetti, quando esauriscono i loro effetti sui soggetti che li reclamano. Vi sono però istanze nascenti dai convincimenti umani più profondi che, per la loro natura, connotano la società in un certo modo: in “quel certo modo”, quindi, la società finisce per esserlo per tutti, anche per coloro che vorrebbero abitarne una diversa.
Un esempio fra i tanti: la bioetica, in riguardo alla quale quei principi liberali, che rimangono validi, devono essere sviluppati in profondità. Se sono legittime le istanze di chi vuole manipolare la vita, lo sono altrettanto quelle di chi è atterrito da tale prospettiva. La società è la casa di tutti e tutti devono poterla sentire tale. La saggezza vorrebbe che ognuno riconoscesse e garantisse all’altro il diritto di vivere in una società anche per lui abitabile e che quindi – essendo la società in cui viviamo una sola e per tutti – accettasse una contaminazione tra i propri principi e quelli degli altri. Se tutti lo fanno, nessuno avrà il massimo, ma nessuno si sentirà in una casa che non è la sua. Altrimenti, le regole democratiche risolveranno la questione, e si rischierà di essere su una brutta china: l’integralismo – religioso o di altra natura – della maggioranza.
Ma non si opponga che una parte deve tacere “perché nessuno la obbliga a fare ciò che non condivide”. Va fuori tema chi ragiona così. Infatti anche quella parte ha il diritto di proporre, come l’altra, la società comune che tutti devono abitare. Nel dibattito delle idee sui grandi temi c’è un’arma che non è consentita: la negazione pregiudiziale di legittimità dell’opinione contraria, che tradisce la pigrizia mentale ed il timore del confronto nel merito.
(intervento dell'autore pubblicato su Italians - Corriere.it il 6 luglio 2012)

mercoledì 5 settembre 2012

Un dono inatteso


Tra le molte parole e frasi scritte  in questi giorni sul conto del Cardinale Carlo Maria Martini, ve ne sono alcune che fanno arrestare il nostro distratto cammino di tutti i giorni facendoci volgere lo sguardo a questo mite e discreto compagno di viaggio, che appariva, a chi non lo conosceva da vicino, come uomo schivo e timido, caratteristiche che  non sono tali da suscitare gli oceanici entusiasmi di figure più carismatiche. 
La citazione indiana, che Martini spesso richiamava, sulle età dell'uomo (si impara, si insegna, si riflette, si mendica) colpisce ed, inizialmente, stupisce.  Soprattutto l'ultima età. “Nella quarta, si mendica” sono le parole più inattese, ma anche le più vere. Nella vecchiaia, si mendica. Non necessariamente si mendicano i beni materiali. Quanti di noi hanno ogni ora sotto gli occhi persone care anziane, difficilmente avranno finora pensato a questa faccia della realtà, ma ora che la citazione amata dal Card. Martini giunge alle nostre orecchie, vediamo i nostri cari in modo diverso (ed anche questo è un dono). Sì, "nella quarta, si mendica": compagnia, aiuto, amore, pazienza. Che Dio ci aiuti a darne, quando siamo nelle prime tre età, e ad averne, alla fine.
Un altro motivo di riflessione che sorge avvicinandoci alla figura di Carlo Maria Martini, è il pensiero della morte. Da quel che si legge, egli non la temeva; temeva invece la transizione verso di essa. Il passaggio. E' stato detto: come Gesù nell'orto del Getsemani. Ma si può anche dire: come ogni uomo. Il tema della morte è un tema centrale per il cristiano. Al cristiano la morte non fa paura in sé: la teme, ma non per sé stesso, bensì per la mancanza che produrrà in chi gli vuole bene. E per lo stesso motivo teme quella delle persone alle quali è legato.
Quest'uomo col quale abbiamo avuto la fortuna – inconsapevoli molti di noi  – di fare un tratto di cammino insieme in questo mondo, forse era una di quelle rare persone che amano capire e che hanno imparato come fare: si ascolta, soprattutto ciò che ci appare lontano e diverso da noi, si ascolta soprattutto ciò che ci sembra di non poter condividere. Si ascolta in silenzio, con profonda attenzione, e ci si pensa senza il pregiudizio delle nostre convinzioni fino ad allora maturate. Nessuno ha convinzioni tutte giuste; nessuno ha convinzioni tutte sbagliate. Più si è allenati,  più si può regalare al prossimo, con poche, miti ma sapienti parole - senza clamori e senza grida - il distillato essenziale della nostra capacità di pensiero. Così in fondo si può credere che abbia saputo fare nella sua vita il Cardinale Carlo Maria Martini, nella nostra colpevole distrazione.

mercoledì 22 agosto 2012

Il tifoso resuscitato


Il tifoso viola in queste settimane è come Lazzaro resuscitato. Solo due mesi fa regnava il più cupo pessimismo, non si vedevano sviluppi alle promesse di Andrea Della Valle; la società - nonostante l'allontanamento del vecchio DS - pareva ancora affetta dal virus corviniano dell'inconcludente tergiversare: la scelta del nuovo allenatore, del Direttore Sportivo, le prime mosse dell'indispensabile rifondazione dell'organico della squadra mostravano una sconfortante paralisi. Ci si domandava se l'epoca Della Valle fosse veramente alla fine, se i marchigiani stessero ormai liquidando l'esperienza viola cercando di subire il minimo possibile dei danni. Erano previste cessioni importanti, ma sugli arrivi solo voci di nomi di scarsa presa, apparentemente in disarmo, da prendere magari in prestito per impegnarsi il meno possibile, pronti in ogni momento all'abbandono finale.
Poi la svolta. I sali che hanno fatto riprendere il tifoso dallo svenimento nel quale stava scivolando. Un Direttore Sportivo di prima linea, affiancato dall'esperto del mercato estero Macia, un allenatore giovane e dalle idee chiare, e poi le operazioni di mercato, che hanno denotato chiarezza d'intenti, capacità di negoziazione sul mercato a trecentosessanta gradi, decisione, oculatezza. In pochi giorni sono arrivati Viviano, Fernandez, Rodriguez, Valero, Pizarro, Aquilani, El Hamdaoui, Cuadrado.
Senza che siano state fatte follie sul piano degli esborsi, la squadra è stata veramente rinnovata e riequilibrata attorno al talento di Jovetic. Ed è questo il nodo più grosso in questo momento. Un nodo da sciogliere, ma in tutta serenità. La società e il nuovo DS hanno fatto vedere di non voler ripercorrere gli affannosi sentieri del passato, con scelte non programmate, restando regolarmente col cerino acceso in mano ad ogni minimo imprevisto. La società vuole tenere Jovetic, ed ormai è prevedibile che ci riesca. Tuttavia, se dovesse giungere una offerta irrinunciabile, sarà anche pronta ad agire: molto probabilmente Pradé sa già come intervenire se da qui al 31 agosto la società dovesse decidersi alla cessione suo giovane campione. Non sarebbe una tragedia: la squadra è già sufficientemente rinforzata, l'organico è equilibrato, costruito secondo le indicazioni dell'allenatore e non (come in passato) imposto all'allenatore da un DS che seguiva le proprie strategie a volte incomprensibili, costruendo squadre piene di doppioni in alcuni ruoli e totalmente scoperte in altri. Se parte Jovetic, arriverà un buon giocatore al suo posto, oltre a tanti soldi. Si può essere fiduciosi.
Ma, a parte Jovetic - che resti come è auspicabile, o che parta per essere degnamente sostituito - rimane un ultimo passo da fare per la società, per completare il buon lavoro fin qui svolto. Occorre un bel centravanti. Lo ha detto anche Montella: ci vuole uno che la butti dentro. Il calcio è un gioco che ha la finalità di mettere la palla nella rete degli avversari. Ma c'è da credere che arriverà. Non arriverà uno famosissimo (e costosissimo). Arriverà una buona punta efficace in grado di fare i gol, finalizzando una manovra di gioco che la squadra finalmente pare in grado di svolgere, a differenza di quel che abbiamo dovuto vedere, e soffrire, negli ultimi due campionati.

sabato 4 agosto 2012

"Terra, terra!..." di Sàndor Màrai (Ed. Adelphi)


Questa non è una recensione.
Dopo la lettura di “Terra, Terra !..” nessuno si troverà a riflettere sul senso e sul valore letterario dell'opera o sui suoi significati più o meno nascosti. Il primo istinto del lettore intellettualmente onesto - per primo con sé stesso - sarà invece quello, irrefrenabile ed irato, dell'indignazione. Indignazione nell'accorgersi , leggendo questo lavoro di Màrai, eccelso come gli altri eppure così diverso, di come il mondo culturale occidentale nelle sue congregazioni di casta - ufficiali e sottobanco - abbia condannato per decenni all'oblio un gigante della letteratura europea del novecento, come è Sàndor Màrai.
Màrai, un cane sciolto, che sarebbe stato impossibile attaccare perché di livello troppo superiore a quello dei sacerdoti che hanno celebrato la liturgia della cultura occidentale dall'ultimo dopoguerra ad oggi, incensandosi a vicenda e coalizzandosi per tenere a viva forza sott'acqua i migliori che “non si guardavano intorno” alla ricerca di scambi di utilità. Un soggetto pericoloso, Màrai, come tutti coloro che “non sono di nessuno” e vivono non di prebende elemosinate dal potere, ma della libertà del proprio intelletto.
La cintura di sicurezza è stata quella del silenzio, l'unica possibile di fronte ad un intellettuale inattaccabile: borghese sì, ma antinazista ed antifascista oltre che anticomunista.
Màrai, nato nel 1900 in una piccola città dell'Alta Ungheria poi passata alla Cecoslovacchia e vissuto lungamente a Budapest, ha visto – opponendovisi - le sciagure del suo paese dopo la caduta dell'impero austrungarico, con l'effimera “repubblica sovietica” di Bela Kun (lo spazio di un'estate), alla quale egli stesso, giovanissimo, aderì, e poi col lungo, grigio ed opprimente regime pseudoparlamentare del reggente Horthy, fino alla deriva filofascista delle “croci frecciate” e all'occupazione nazista. Solo negli anni trenta, assieme alla giovane moglie Lola, ebbe una lunga permanenza in Europa occidentale, tra Germania, Francia e Italia, parentesi di cui fa fede “Confessioni di un borghese”, libro di memorie maturo e profondo sebbene scritto da un trentacinquenne. Màrai fece poi ritorno in patria per “scrivere”, essendosi reso conto che poteva scrivere solo in ungherese, in questa lingua parlata e capita solo da un piccolo popolo isolato nel mondo e diversissima da quella dei popoli vicini - simile solo al finlandese per la comune origine orientale del ceppo ugro-finnico.
L'indignazione non nasce nel lettore dalla descrizione che Màrai fa dei primi momenti dell'occupazione dell'Ungheria da parte dell'armata rossa staliniana e dalla scientifica nazionalizzazione del paese e, soprattutto, come nota lo scrittore, dalla “nazionalizzazione della personalità dei cittadini”. Le vicende, ormai concluse da un ventennio, delle democrazie popolari dell'Europa orientale sono note, e chi non si è indignato quando erano trionfanti, fa bene a non indignarsi neppure adesso leggendo un libro che riporta, in fondo, fatti all'epoca risaputi anche da chi preferiva distogliere lo sguardo.
L'indignazione non nasce da quei fatti, i fatti atroci della dittatura, tanto più che oggi vediamo con raccapriccio di cosa sono capaci i nuovi regimi di alcuni di quei paesi.
L'indignazione si origina invece dall'atteggiamento dei circoli culturali europei occidentali, che hanno nascosto al grande pubblico l'opera di Màrai, come “voce stonata” di un coro che è stato convinto (e ci ha convinti) per decenni di essere all'avanguardia.
“Terra ... Terra!...” è il grido del mozzo di Colombo dalla coffa dell'albero maestro della Caravella, ed è il grido di Màrai quando decide, nel 1948, di lasciare definitivamente il suo Paese. La “Terra” è l'Occidente, ma egli non sapeva che lì viveva e prosperava – proprio nel mondo della cultura, che era il suo mondo - una “enclave” di quel regime dal quale egli pensava di fuggire, e che non gli perdonò la sua libertà intellettuale.
Solo Adelphi, in Italia, verso la fine degli anni '90 (quando Marai era già morto suicida nel 1989, appena un minuto prima del crollo delle dittature dell'est, al quale non ha potuto quindi assistere) ha iniziato a rendere onore ad un grande scrittore che con le sue opere, numerose e tutte bellissime, ha delineato magistralmente ed in profondità la coscienza individuale e collettiva dell'Europa tra le due guerre.
Gli europei che sanno quale tesoro sia la capacità di pensiero dell'uomo e vogliono fruire della propria con piena libertà, hanno quindi ora la possibilità di rimediare, sia pure in ritardo, all'ostracismo al quale Sàndor Màrai è stato costretto in quella “Terra” che, pieno di speranza, pensava di aver avvistato dalla coffa dell'albero maestro della sua caravella.


“E allora sarei potuto restare: avrebbero deciso nel santuario del Partito se pubblicare o meno un mio nuovo libro, se concedere la carta per la ristampa dei precedenti. Di tanto in tanto avrei potuto viaggiare all'estero (previa assicurazione di fare ritorno), prender parte a congressi letterari stranieri a spese dello Stato e dimostrare con la mia presenza che anche in Ungheria vi era libertà di spirito, dato che io, lo scrittore non comunista, potevo comparire e parlare alle riunioni mondiali dei ”lavoratori dello spirito”. ... In cambio non mi avrebbero chiesto altro se non di dare qualche volta un calcio a un condannato a morte: non solo a un “controrivoluzionario” , ma anche ad un comunista di cui non avessero avuto più bisogno. .... O di incoraggiare l'operaio ungherese che non reggeva il ritmo forzato della “gara di lavoro socialista”, lo stacanovismo remunerato con uno stipendio da fame, a recarsi sotto la statua di bronzo di Stalin, a contemplare l'immagine del Gran Capo dei Popoli e a capire finalmente quale fosse lo scopo e il significato di quei lavori forzati .” (“Terra, terra!...” Adelphi - pag. 309/310).

Queste parole venivano scritte nel 1969, ma esse rispecchiano l'uomo e lo scrittore anche delle opere precedenti. Come avrebbero potuto consentire, i circoli culturali dell'Europa occidentale degli anni tra il '50 e il '90 del novecento, che un simile autore fosse conosciuto dal grande pubblico? Che fosse candidato al Nobel per la letteratura ?


mercoledì 18 luglio 2012

Le scale universali


Per noi comuni mortali è difficile cogliere il senso di traguardi scientifici quali quello rappresentato dalla dimostrazione dell'esistenza del cosiddetto “bosone di Higgs”. Si resta ammirati dell'intelligenza, dell'impegno, della messa a frutto di conoscenze accumulate per anni dai fisici che vi si sono dedicati con passione e con fede. Si percepisce che ciascuna di queste scoperte consente ogni volta all'uomo di conoscere qualcosa di più dei meccanismi che fanno essere - così come sono - la vita, le cose, l'universo. Ma si ha anche la percezione che un gradino in più resti solo un gradino in più di una scala che non ha fine - meglio salire che scendere, ovviamente. Forse qualcuno sa dove finisce la scala ? O, semplicemente, sa almeno “che finisce”? E se la scala non ha fine (come istintivamente pare probabile), la scienza dell'uomo vi si addentri in punta di piedi, consapevole di poter pesare, misurare, scoprire il modo di funzionare di brevi segmenti di quello che ci circonda, perché solo i segmenti, sia pure “consecutivi”, hanno un inizio ed una fine, ed il terreno della scienza deve avere un inizio ed una fine, altrimenti non è il suo campo.
L'inizio dell'universo è stato il Big Bang, ma ci viene detto che prima del Big-Bang vi era un altro universo, anch'esso nato da un precedente Big-Bang e così via, a ritroso ed in avanti e ... senza fine.
Allora, pare saggio rallegrarsi del progresso scientifico che, salendo faticosamente i gradini di una scala infinita, ci porta ogni volta un po' più in alto a respirare un'aria più tersa, sapendo però che l'ascesa non finirà mai.
Pericoloso invece sarebbe credere di poter tagliare, prima o poi, un traguardo finale.

sabato 16 giugno 2012

"La vendetta" di Marco Vichi - Ed. Guanda

Chi aveva apprezzato il Vichi del Commissario Bordelli avrà forse qualche motivo di perplessità mentre legge "La vendetta", ultimo romanzo dello scrittore fiorentino. Qui il commissario dalla sigaretta perennemente accesa che scorrazza in San Frediano a bordo del suo vecchio maggiolino non c'è. Non c'è un delitto e non c'è un responsabile da scovare. E' già tutto scritto. Il romanzo parte da lontano,  siamo a Firenze (anche se non pare), verso la fine degli anni '30. Il giovane Rocco ha una vita normale, un lavoro, un grande amico, Rodolfo,  ed anche una ragazza, Anita. Ma questa improvvisamente lo lascia e dopo un po' scompare. Rocco viene a sapere che l'abbandono di Anita è stato causato da una menzogna del suo amico Rodolfo che, al solo scopo di mandare a monte il già programmato matrimonio, ha riferito alla ragazza di una inesistente relazione di Rocco con una certa Caterina. Ma Rodolfo sparisce,  mentre - di Anita - Rocco viene a sapere, dopo un po', che è morta tragicamente a Torino, dove si era trasferita e dove aveva iniziato una poco commendevole attività. Comincia per il giovane un'inesorabile caduta che  lo porta a lasciare il lavoro per finire a condurre una esistenza da barbone con residenza sotto un ponte dell'Arno, in coabitazione con un altro strano soggetto che si fa chiamare Steppa. Qui, è ben riuscito l'affresco della miseria putrescente nella quale conducono la propria esistenza i due poveri esseri umani.   Dopo molti anni dall'inizio della tragedia, accade un fatto assolutamente inaspettato: l'amico Rodolfo  torna a Firenze, ma adesso non è più il vitellone viziato degli anni '30: è un professore di fama di una università americana, addirittura un aspirante al Nobel  per le sue ricerche di biogenetica.  E a questo punto inizia la programmazione della vendetta, per la quale Rocco chiede l'aiuto di tale Bobo, reduce da Birkenau, del cui soggiorno porta pesanti tracce nel fisico e nello spirito.
Il romanzo è ben scritto e scorrevole, ma il contenuto delude non poco. La vicenda non è un granché e per impiantarci sopra un romanzo di duecento pagine l'autore ricorre ad una serie di trovate abbastanza improbabili (come improbabile è, del resto, la stessa vendetta) e fuori contesto, tra le quali un gratuito ed efferato omicidio che serve solo a tirare avanti per qualche pagina, ed una cena in arcivescovado il cui accesso nel romanzo non è dato sapere a quale fine sia dovuto, se non a quello di sparlare gratuitamente degli ecclesiastici in un momento in cui l'argomento parrebbe di attualità (predilezione per i prelati che Vichi ha del resto già mostrato in passato in "Morte a Firenze" del commissario Bordelli).  Abbastanza paradossale è poi, sul finire, una disquisizione pseudofilosofica sulla Natura e sulla Ragione, ma anche grazie ad essa il romanzo taglia, con un po' d'affanno, il traguardo delle duecento pagine (duecenouno per il "buon peso", come dicevano un tempo i pizzicagnoli quando incartavano la mortadella dopo averla fatta furbescamente rimbalzare sul piatto della  bilancia per far schizzare l'ago un po' più in su). Ma tanto, evidentemente, è bastato all'autore ed all'editore. Forse un po' meno al lettore, il quale, al termine, ha la  sgradevole sensazione di essere di fronte ad un fatto commerciale più che letterario e trova quindi conferma di un suo vecchio convincimento: che è bene scrivere un libro solo se si ha qualcosa da dire, altrimenti son tempo e soldi (degli altri) buttati al vento. E qui potrebbe prendere avvio una nuova vendetta (incruenta): quella appunto del lettore quando vedrà in libreria il prossimo romanzo di Marco Vichi.

mercoledì 13 giugno 2012

All'insaputa

Un ex assessore all'urbanistica della precedente giunta comunale di Firenze, a suo tempo dimessosi perchè indagato in una complessa indagine avente per oggetto i programmi edilizi nell'area di Castello, continua a svolgere la sua funzione lavorativa quale dirigente della Regione Toscana. Nell'ambito di questa sua attività, la Regione lo ha designato per far parte di un organismo che deve esaminare taluni aspetti organizzativi e funzionali del Tribunale di Firenze, legati all'informatizzazione dei servizi, esame che potrebbe concludersi con l'assegnazione di fondi  di 500.000 euro al suddetto Tribunale in base ad un bando della Comunità europea. Di questo organismo fa parte anche un magistrato. Questo magistrato è stato successivamente designato ad occuparsi, in quanto giudice, dell'indagine sull'assessore suo compagno di commissione. Poiché a Firenze come noto non  si può star dietro ad ogni sciocchezza, tutto ciò non ha destato l'attenzione di nessuno,  ad eccezione di un consigliere regionale dell'opposizione che evidentemente non aveva altro modo per occupare il suo tempo. Svelata la cosa sulla stampa, il Presidente del Tribunale non vi ha dato gran peso ed ha successivamente dichiarato, molto scaiolanamente, di essere stato all'insaputa che quell'assessore fosse sottoposto ad un procedimento giudiziario di competenza del Tribunale che lui dirige, nonostante che quella vicenda giudiziaria sia la più grave e clamorosa tra quelle degli ultimi decenni a Firenze. Alcuni magistrati, invece, hanno manifestato tutto il loro disappunto. Il giudice designato ad occuparsi dell'indagine sull'assessore (col quale aveva partecipato, fianco a fianco, alla presentazione ufficiale del progetto)  dopo aver chiesto conferma se era lui stesso l'interessato e se quell'ex assessore con quel nome e cognome era proprio quell'ex assessore con lo stesso nome e cognome (e non, in ipotesi, un altro ex assessore fiorentino indagato omonimo, come aveva pensato in un primo momento) , si è subito dimesso dall'incarico, senza porre tempo in mezzo.
Vi è stata una forte polemica in ambito giudiziario, ed è comprensibile.  Meno comprensibile è che sul versante politico nessuno si sia domandato per quale sbadataggine la Regione Toscana sia andata a scegliere, tra i propri dirigenti,  per l'appunto un ex assessore comunale indagato a Firenze, per designarlo quale referente di  un procedimento di attribuzione di un fondo di 500.000 euro all'ufficio giudiziario che dovrà giudicare proprio lo stesso assessore.