sabato 9 novembre 2013

Tecniche d'indagine italiane

Nella rubrica “Huffington Post” di Repubblica.it del 6 novembre 2013 è fugacemente comparso un articolo che riporta al caso Moro, prendendo le mosse da un recente libro di Ferdinando Imposimato “I 55 giorni che hanno cambiato l'Italia” - ed. Newton Compton, uscito nella primavera scorsa.
Ferdinando Imposimato è un noto magistrato inquirente da tempo in pensione; uscito dalla magistratura, è stato deputato, prima del PDS e poi dei DS. Nella sua attività professionale si è occupato di inchieste tra le più dirompenti: dal caso Moro all'attentato a Papa Giovanni Paolo II.  Egli ha poi continuato ad occuparsi a titolo personale soprattutto del caso Moro.
Il nucleo centrale dell'ultimo libro di Imposimato (in particolare il capitolo “I giorni di Giuda”) riguarda una rivelazione che egli ebbe casualmente da tale Giovanni Ladu  trenta anni dopo i fatti. Ladu prese contatti con lui nel 2008 e gli riferì che nei giorni precedenti il ritrovamento del cadavere di Aldo Moro (9 maggio 1978) egli, assieme ad altri militari, aveva fatto parte di un nucleo d'intervento che doveva effettuare, o quanto meno preparare, un blitz in via Montalcini, dove le Forze dell'Ordine già sapevano (secondo Ladu) che veniva tenuto l'illustre prigioniero. Ladu riferì a Imposimato che all'ultimo momento, quando tutto era già pronto per l'intervento armato di liberazione, ci fu un improvviso contrordine: i militi furono tutti rispediti alle loro caserme con la consegna di non far parola con nessuno dell'operazione della quale si erano occupati. Il giorno successivo Moro fu trovato ucciso nella tristemente nota Renault Rossa in Via Caetani.
Imposimato riferisce nel suo libro di essersi domandato il motivo per il quale questo Ladu, divenuto nel frattempo ufficiale della guardia di finanza, a distanza di trenta anni anni dai fatti si fosse deciso a parlare di quella vicenda che nessuno conosceva. Gli dette credito perché Ladu era a conoscenza di molti particolari logistici (ad esempio la situazione dei luoghi vicino a Via Montalcini all'epoca dei fatti riferiti, e successivamente modificata) e poi perché Ladu era stato accompagnato a Roma, per l'incontro concordato, da un ufficiale della Guardia di Finanza di Novara, il quale gli era parso “preciso, intelligente, prudente, colto” (pag. 155).
E' interessante notare che Ladu riferì a Imposimato che all'epoca dei fatti (aprile-maggio 1978) aveva 19 anni, era partito da casa in Sardegna per il servizio di leva a Napoli il 20 aprile 1978 (pag. 159). Tre giorni dopo l'arruolamento lui ed altri 39 militari di leva ricevettero l'ordine di partire per una missione a Roma, dove arrivarono il 23 aprile 1978 (Moro era stato sequestrato il 16 marzo e sarebbe stato giustiziato dalle BR il 9 maggio 1978). Quindi, a stare alla versione di Ladu, l'Italia avrebbe utilizzato per un blitz volto alla liberazione di Moro - del quale conosceva la prigione - quaranta ragazzi di leva appena arruolati.
Imposimato ebbe qualche dubbio, ma subito lo fugò, come dice lui stesso nel suo libro a pag. 159: “Del resto, che interesse poteva avere Ladu a mentire?”. Di fronte ad un argomento così decisivo, infatti, come dubitare ancora? E poi, Ladu era stato presentato da una persona così intelligente, colta, educata (pag. 155).
Resta il fato che appena quattro giorni dopo l'arruolamento di leva, la sera del 24 aprile (pag. 161) Ladu e gli altri fanno un sopralluogo in via Montalcini, sotto le finestre dei brigatisti; forse non tutti insieme perché un assembramento di quarantina di ragazzi della stessa età, sia pure in borghese, che si aggirano con fare indifferente in una strada di poco più di cento metri in una zona periferica di Roma che non ha particolari attrattive, avrebbe destato qualche sospetto nei brigatisti asserragliati nell'appartamento a guardia di Moro.
Imposimato rimase colpito dalla rivelazione di Ladu. Gli parvero fatti gravissimi: lo Stato sapeva dove era tenuto prigioniero uno dei suoi più alti esponenti, aveva deciso di intervenire per liberarlo ed improvvisamente, l'8 maggio 1978 (pag. 169), vi rinunciò. Il giorno dopo, il 9 maggio, Moro venne ritrovato morto.
Imposimato, sulla scorta della lunga esperienza di pubblico ministero e di inquirente sui casi più intricati dei quali si è dovuta occupare la magistratura italiana, ha qualche tentennamento prima di dare credibilità al suo interlocutore: Ladu non ricorda il nome di nessuno degli altri 39 commilitoni di leva, e poi dai fatti sono passati più di trenta anni: “...l'impossibilità – nel 2008, quando ormai non ero più giudice da anni – di chiamare come testimoni ufficiali e militari, di disporre indagini ... di acquisire documenti ... di avere collaborazione nei Paesi stranieri, mi indussero ad abbandonare l'impresa”(pag. 173). Un cittadino normale, senza le conoscenze e l'esperienza indagativa di Imposimato, forse avrebbe avuto qualche dubbio in più ed avrebbe segnalato il nome di Ladu e le cose che questi diceva alla più vicina stazione dei Carabinieri. Ma per Imposimato le cose riferite da Ladu sono verosimili, pensa solo che vi sia qualche difficoltà a provarle dopo trenta anni  - per lui, che ormai è un privato cittadino -  ed allora si limita a invitare Ladu a informare la Procura della Repubblica di Novara, che poi passa gli atti a quella di Roma, “dove la denuncia di Ladu...restò a languire per due anni su una scrivania”.
Ma quattro anni dopo, “quando ormai avevo abbandonato ogni speranza di veder trionfare la verità sulla menzogna e sul silenzio” (pag. 176),  viene fuori, guarda il caso,  uno degli altri 39 militari di leva compagni di Ladu. Questi si fa vivo per mail con Imposimato dando “il nome fittizio” (e forse un po' beffardo) di Oscar Puddu (“puddu” in sardo vuol dire “pollo”, e questo avrebbe dovuto lasciare intuire dove si sarebbe andati, alla fine, a parare). Puddu si disse disponibile a descrivere ciò che sapeva, ma solo per iscritto, rifiutando un incontro diretto e comunicazioni telefoniche a viva voce. Un esperto inquirente no, ma un cittadino ignaro avrebbe subito sospettato che questo Puddu non fosse altri che Ladu che tornava alla carica per dare riscontri, apparentemente di un'altra persona, dei fatti che aveva già riferito a Imposimato senza ottenere grandi risultati, sia pure nel rammarico di quest'ultimo. Per fare questo adotta un nome fittizio e si rifiuta di farsi vedere o ascoltare da Imposimato, perché – a distanza di quattro anni – sarebbe facilmente riconosciuto. Anche Imposimato viene colto da qualcosa di simile ad un dubbio del genere, ma dall'alto della sua esperienza subito lo ricaccia via (“dopo qualche incertezza, decisi di non rinunciare alla sua offerta:così avrei avuto modo di verificare ciò che mi diceva in base al racconto di Ladu, ma anche accertare l'attendibilità di quest'ultimo, fino ad allora troppo isolato per essere creduto” (pag. 177). Deve aver pensato così anche Ladu: meglio sdoppiarsi, così poi sembro due.
“Iniziava così tra me e Oscar Puddu un lungo dialogo informatico fatto di notizie fornite spontaneamente e di domande e risposte scritte...” (pag. 178).
Dopo le prime mail, che riportano fatti incredibilmente identici a quelli – di trenta anni prima – già riferito da Ladu, Imposimato viene colto dal dubbio: “Subito mi chiesi se non fossero la stessa persona.” (pag. 179). Egli nutre a lungo questo dubbio, ma decide di andare avanti. Però il vecchio inquirente cerca di vedere in faccia il suo interlocutore, ma ovviamente non ci riesce. Comincia a conoscere meglio Puddu, sia pure solo per scritto. Questi gli descrive la propria vita e gli narra fatti in virtù dei quali Imposimato giunge alla conclusione che “I due, Ladu e Puddu, avevano personalità diverse, culture diverse e riferivano, oltre che fatti identici ... anche circostanze differenti. “ E poi Ladu “essendo un uomo leale al massimo, senza riserve mentali e senza doppiezze, non sarebbe mai riuscito a fingersi altri.” (pag. 181). E Puddu, quando Imposimato aveva azzardato a dubitare di quel che diceva, aveva risposto con fierezza che ciò che aveva raccontato era tutto vero. Imposimato cerca di far tradire Puddu e lo costringe ad ammettere di aver conosciuto Ladu, dandone una descrizione che evidentemente fuga ogni residuo sospetto nell'ex magistrato: Ladu, corpo robusto ed abbastanza atletico, faceva parte dei bersaglieri, dall'accento si capiva che era sardo, aveva un compagno d'avventura dal nome in codice Pippo. Tutto corrispondente alla persona di Ladu e alla sua versione dei fatti. Veramente sorprendente. Di fronte a simili e decisivi argomenti, come continuare a dubitare che Ladu e Puddu fossero la stessa persona? Solo un povero cittadino ignaro delle tecniche investigative avrebbe potuto continuare a farlo.
Leggendo le pagine di Imposimato, si ritrova effettivamente un chiaro ed inequivocabile riscontro, nella parole di Puddu, di quel che aveva riferito quattro anni prima Ladu. Queste ultime, avendo avuto il riscontro di un secondo testimone, sono quindi attendibili: lo Stato italiano sapeva dove era nascosto Moro e stava per liberarlo. L'8 maggio 1978 fu repentinamente annullata l'operazione. Il giorno successivo fu ritrovato il cadavere di Moro in via Caetani. E da qui, ovviamente, P2, Gladio, CIA ecc. ecc. (strade purtroppo da non trascurare, forse però per altre motivazioni).



La notizia riportata per poche ore su “Huffington Post” di Repubblica.it il 6 novembre scorso riferisce che la procura di Roma ha deciso indagare per calunnia Ladu perché accusato di aver "falsamente incolpato, pur sapendoli innocenti, i vertici istituzionali e militari, nonché le autorità di polizia giudiziaria dell'epoca”. Il Pm ha affidato le indagini ai Carabinieri del Ros. Secondo l'accusa Puddu non esiste, è un nome di fantasia dietro il quale si nasconde Ladu, il primo (ed unico) testimone. Ladu, secondo l'accusa, usò il falso nome di Puddu e dietro questo paravento tornò a contattare Imposimato, questa volta via mail. 


Ancora non sappiamo come stanno le cose, ma se le nuove indagini in corso adotteranno gli stessi perspicui criteri investigativi che sempre più spesso emergono (come anche in questo caso), difficilmente riusciremo a saperlo in futuro. Certo che leggendo il libro di Imposimato, che di indagini scottanti ne ha seguite tantissime (forse tutte le più scottanti del dopoguerra), si può riuscire a capire perché in Italia spesso non si arrivi a nulla ed i casi più gravi restino avvolti per sempre dal mistero. Basta che un interlocutore appaia “colto, intelligente ed educato”, che non si veda quale interesse possa vere per dichiarare il falso, che sembri “un uomo leale al massimo, senza riserve mentali e senza doppiezze” e le indagini procedono vittoriose fino alla loro gloriosa conclusione (nel nulla, ovviamente). Sulla parola dei galantuomini, purché educati: così si amministra la giustizia in Italia.


C'è una notazione finale da fare, che forse spiega il silenzio nel quale è stata subito avvolta dai media l'iniziativa della Procura di Roma sul caso “Ladu/Puddu”. Nella prefazione al libro di Imposimato si fa riferimento – per avvalorare la ricostruzione dell'ex giudice – alla “definitiva conferma e certezza attraverso le dirompenti dichiarazioni – raccolte dall'autore – di due dei numerosi militari impegnati nei servizi di osservazione finalizzati alla successiva irruzione nella prigione di Moro e che ricevettero, poi, improvvisamente e inopinatamente l'ordine di immediata smobilitazione. ...Le rivelazioni di questi due militari ... sono troppo convergenti, coincidenti in tutto e per tutto: troppo dense di particolari, troppo piene di formidabili riscontri, ... sì che ad essi deve attribuirsi la massima attendibilità, credibilità e veridicità. ... Dettagliato e minuzioso e del tutto sovrapponibile è il resoconto da parte di entrambi degli avvenimenti e delle operazioni di quei quindici giorni...”.
Sì, anche secondo il prefatore Ladu e Puddu parlano come se fossero la stessa persona. Se lo dicono entrambi, come possono non sapere?
Quando questo prefatore scriveva la sua prefazione, all'inizio del 2013, egli era ancora poco noto, almeno al grande pubblico. Sarebbe venuto alla ribalta solo qualche mese dopo: egli infatti risponde al nome del presidente di sezione della corte di Cassazione Antonio Esposito.



martedì 5 novembre 2013

"Morbo italico" di Franco Cordero (Ed. Laterza) - Ovvero: nuovi casi della sindrome di Gaber

“Io non ho paura di Berlusconi in sé, ho paura di Berlusconi in me”. La frase celebre di Giorgio Gaber (marito, peraltro, della berlusconiana Ombretta Colli) è destinata a trovare sempre maggiori conferme ogni giorno che passa. Il berlusconesimo che ha pervaso gli ultimi venti anni ha prodotto effetti preoccupanti non solo sul Paese, ma anche nell'intimo dei suoi abitanti. La sindrome scoperta dal compianto cantautore, dal quale prende quindi il nome, si presenta in due distinte ed opposte versioni . Da un lato una inconcepibile adorazione fideistica, dall'altro un avvitamento su sé stesse anche delle migliori intelligenze, obnubilate dall'avversione ed ormai incapaci di connessioni dialettiche che non ruotino attorno allo “psiconano”, al pregiudicato, a “Berlusconi e la nipote di Mubarak, a “Berlusconi e i suoi processi” e a “Berlusconi ed il suo conflitto d'interessi”, fino alle ultime edizioni del ”Berlusconi e Dudù”, in un florilegio che l'interessato alimenta generosamente ogni giorno senza che chi se ne pasce sospetti qualcosa.
E' difficile stabilire quale delle due opposte versioni della malattia sia più letale per chi ne sia posseduto, anche se è certo che nessuna delle due ha un decorso benigno.
Se è molto limitativo del libero esplicarsi della personalità umana l'essere rimasti avviluppati nella mistica estasi di una luce che tutto nasconde col suo quasi divino bagliore, è altrettanto penalizzante l'aver accettato di irretire, concentrandola in modo involuto su un unico argomento, la propria fulgida intelligenza, potenzialmente in grado di spaziare nello sconfinato campo dello scibile umano, illuminandolo. A ben vedere, questo secondo danno è - se possibile - peggiore del primo poiché esso non si riverbera solo sull'interessato, ma anche sull'intera comunità, privata del godimento riflesso dei risultati che potevano essere raggiunti se quelle intelligenze, ad un certo punto della loro esistenza, non fossero state interamente assorbite dalle analisi su Berlusconi, dimenticando tutto il resto.
Leggendo l'ultimo libro di Franco Cordero “Morbo Italico” - Ed. Laterza si può trovare conferma della perniciosità di questa seconda versione della sindrome di Gaber (dal nome del primo scopritore e teorizzatore dei sintomi del "Berlusconi in sé stessi"). 
Franco Cordero è un anziano ed insigne giurista, uno dei maestri del diritto processuale penale, materia da lui lungamente insegnata in varie università e compendiata in un manuale sul quale si sono formate migliaia di avvocati e magistrati italiani.
Franco Cordero è anche un brillante scrittore, dotato di uno stile unico ed avvincente, di una sintassi fantasmagorica dalla quale si originano periodi immaginifici che strappano violentemente il lettore dalla poltrona e lo scaraventano sulla cresta di onde sintattiche impetuose e spumeggianti, sempre sull'orlo di esserne inghiottito, sempre però tenendovelo in sella col cuore in gola: ogni attimo pare quello ultimo prima dell'irreparabile, ogni volta scongiurato dall'onda successiva,  che lo risolleva  a perpetuare l'avventura sintattica, la quale non è mai secondaria in ciò che può offrire in godimento la lettura di un buon libro, neppure rispetto al suo puro contenuto.
In questo libro Cordero colloca il morbo attuale dell'Italia nella scia degli antichi mali italiani e quindi sostanzialmente ci parla – col suo stile inimitabile – del berlusconesimo. E qui veramente si può trovare l'esemplare distinzione tra lo stile e il contenuto. Quest'ultimo per oltre trecento pagine si dipana su quella decina di ormai consunti argomenti, senza aggiungerne di nuovi e senza mai vederli in una luce diversa e più luciferina, come uno si sarebbe aspettato da un libro di Cordero su Berlusconi. Quel che c'è di più,  in questo anziano paziente affetto dalla sindrome gaberiana, è il fuoco pirotecnico dell'originalità espressiva: dall'appellativo di “Re Lanterna” a quello di “Berlusco Magnus”, all'audace parallelismo con – nientemeno – fra Girolamo Savonarola. Poiché ogni paziente è portato, per naturale istinto di autoconsolazione, a ritenere gli altri pazienti ben ben più gravi di lui stesso, ecco che Cordero appella come “energumeni” gli affetti dalla forma opposta della sindrome di Gaber, quella caratterizzata dal misticismo adorante.
Lascia un po' di rammarico che uno scrittore come Cordero abbia dedicato il proprio estro e la propria intelligenza ad una rimasticatura di ormai consunti argomenti antiberlusconiani, mentre la materia avrebbe potuto giovarsi proprio di un interprete come lui per una rilettura della negatività dei contenuti del berlusconesimo in una luce diversa, anche se è apprezzabile come sempre l'originalità del suo stile espositivo.

Recenti sventure rinfocolano antichi mali italiani.
Sudditi congeniti cercano padrone
e lo servono con una gran paura
d'essere liberi: pensano poco
o niente; moralmente sordi,
rifuggono dalla serietà tragica,
né sopportano l'arte, intenti a tristi
farse; l'anarcoide ipocrisia
conformistica maschera un socievole cannibalismo.
L'esito è miseria cronica.

(F. Cordero – Morbo italico – Laterza – risvolto di copertina)