mercoledì 3 dicembre 2014

Quirinale

Da qualche settimana sono trapelate notizie sull'intenzione del  Presidente Napolitano di dimettersi ed il Quirinale ha precisato di non poter né confermare né smentire, la qual cosa assomiglia più ad una conferma che ad una smentita. E' quindi partita la solita ridda di voci e di candidature, poco rispettose del silenzio del Presidente, che è in carica e che può rimanerci fino al 2020. Può essere un gioco divertente quello del toto-Quirinale, se non fosse che la serietà della situazione italiana sconsiglia i divertimenti, ai quali ci siamo beotamente dedicati in questi venti anni, tra prendere in giro Berlusconi e difenderlo, tra frizzi e lazzi mentre tutto intorno a noi precipitava.
La prima osservazione che vorrei fare sull'argomento è che un Parlamento come l'attuale, nel quale un partito - il PD - che ottenne alle ultime elezioni (2013) il 25% dei voti dispone oggi di tanti grandi elettori quasi sufficienti per una elezione al quarto turno - un Parlamento così, la cui carenza di rappresentatività è stata proclamata dalla Corte Costituzionale - tutto dovrebbe fare meno che eleggere il rappresentante dell'unità della Nazione per i prossimi sette anni. La prima ed unica cosa che avrebbe dovuto fare sarebbe stata una legge elettorale costituzionalmente corretta e poi sciogliersi. Ma è andata così, e con tutta probabilità nei prossimi mesi, o settimane, questo Parlamento sarà convocato per l'elezione Presidenziale. Per limitare i danni democratici di un così scorretto procedere, e cioè per evitare che venga eletto un esponente di parte grazie all'abnorme presenza in seggi di un determinato schieramento, minoritario nel Paese in base alle ultime elezioni politiche (le uniche da prendere correttamente a riferimento), sarebbe necessario che la scelta cadesse su una personalità in grado di aggregare sul proprio nome una vastissima maggioranza del Parlamento, così da rendere ininfluente l'incostituzionale supremazia in seggi di una parte rispetto alle altre. Credo che un Presidente che fosse eletto a stretta maggioranza da un Parlamento formato come l'attuale dovrebbe avvertire l'esigenza democratica di rifiutare l'elezione, ma vi sono soggetti di bocca tanto  buona che non si farebbero molti scrupoli ad accettare, visto che si rammaricano tutti i giorni per una elezione mancata per 101 voti (mica per uno!), i quali, se non  fossero (provvidenzialmente) mancati, ci avrebbero dato fino al 2020 un Presidente espressione di appena il 30% del Paese. Poiché la Costituzione attribuisce al Presidente, tra le altre, anche la funzione di rappresentare l'unità della Nazione, la scelta dovrebbe cadere su una personalità che unisca e che non divida: il primo sintomo di questa caratteristica è che il prescelto sia espressione di un largo schieramento nel Paese e quindi, in un Parlamento come l'attuale, dovrebbe essere eletto quasi all'unanimità.  Pertanto andrebbero a priori esclusi quei personaggi, sebbene illustri, che sono stati i capifila o le star di riferimento dei due schieramenti che in questi i venti anni si sono contrapposti con tanta scellerata insulsaggine da condurre il Paese qui dove l'hanno condotto. Ecco, questo sarebbe già qualcosa di utile: "loro", no. Hanno già dato e soprattutto, alcuni, hanno già preso (saltando di poltrona in poltrona lungo una quarantina di anni)  ed hanno anche governato personalmente il Paese, per un buon quarto del ventennio, coi risultati che vediamo. Si riposini, adesso, non possiamo accettare altre generosità.  E chi allora? Penso a personalità non direttamente implicate nella melma maleodorante di questo ventennio o che, pur avendovi avuta qualche inevitabile contiguità, non si siano spese troppo ed abbiano sempre mantenuto un atteggiamento di rispetto per tutti. Difficilmente - anche per assicurare un'elezione a larghissima maggioranza - potrà trattarsi di un uomo o una donna vicini al centrodestra (ammesso che lì che ve ne siano con le caratteristiche alle quali ho accennato).
Sul versante del centrosinistra ragionevole e non urlante nelle piazze, forse qualche personalità del genere potrebbe essere trovata, ed un nome potrebbe essere quello del Prof. Sabino Cassese, ex giudice costituzionale; il nome serve per indicare in concreto un profilo, al quale di nomi possono poi corrisponderne - sperabilmente - molti altri, non dimenticando l'opportunità di una alternanza rispetto all'attuale Presidente, ex comunista e laico. Un altro, o altra,  ex PCI mi sembrerebbe veramente fuori luogo. Ma i nostri partiti, che si tengono ben stretto l'incostituzionale bottino carpito col porcellum, potranno essere tanto saggi? Eh, dovranno esserlo: altrimenti rischiano di dover andare di nuovo in pellegrinaggio al Quirinale per supplicare Napolitano di accettare una terza elezione. 

(pubblicato sul blog Le forme della politica il 1.12.2014)

martedì 9 settembre 2014

Sponde vere e sponde false

In questi giorni la stampa ha riportato la notizia secondo la quale un noto armatore ha commissionato alcune navi da crociera di nuova concezione, dal ponte delle quali il viaggiatore avrà l'impressione di vedere il mare dalla terraferma. Il viaggiatore lascerà quindi la terraferma di fronte al mare per imbarcarsi su una nave dalla quale vedrà il mare proprio come lo avrebbe visto dalla terraferma.
Si tratta di una scelta strategica - quella dell'armatore – volta a cogliere al meglio l'evoluzione del mercato, essendo ormai sempre meno i terrestri che, quando decidono di imbarcarsi, lo fanno per andar per mare. Ormai si lascia la costa, ci si imbarca su una nave e si va al largo solo per poter vedere meglio com'è il mare dalla costa. Gli armatori di navi da crociera che non si adegueranno saranno ben presto abbandonati dai clienti ed i loro equipaggi passeranno il loro tempo a guardare il mare dalla terraferma, quella vera, con una consunta pipa di cocco in bocca e il berretto sulle ventitré, commiserati dai più.

Si va verso la società del terzo millennio, quella nella quale l'apparenza supera in valore la realtà e dove, partendo dal reale, ci s'imbarca verso l'irreale per vedere meglio il mondo da una sponda falsa che dia l'impressione di essere quella vera - e tanto più questa falsa impressione si avvicinerà al vero quanto più essa ci soddisferà. Naturalmente il massimo sarebbe che quella agognata falsità fosse vera, ma allora dovremmo ricominciare daccapo. Sarà la nave giusta, quella sulla quale ci stiamo imbarcando? Ci porterà verso un mondo nuovo sì, ma anche apparente. Quello reale lo lasciamo tutto ai vecchi marinai disoccupati rimasti a scrutare il mare dalla terraferma. Quella vera. Sperando che ci facciano un po' di posto, lì sulla panchina in fondo al molo.

giovedì 7 agosto 2014

L'anello Passo della Futa - Monte Gàzzaro - Osteria Bruciata - Passo della Futa

   L'anello del Monte Gàzzaro percorre una frazione - circa 11 Km -  di una  delle tappe giornaliere del "Cammino degli dei", il percorso appenninico che unisce Bologna e Firenze su un itinerario naturalistico di oltre 120 Km e che, sia pure con alcune variazioni, passa per Sasso Marconi, Monzuno, Madonna dei Fornelli, Passo della Futa, Osteria Bruciata, Sant'Agata, San Piero a Sieve, Bivigliano e Fiesole. Un po' diverso era il percorso narrato nel film di Pupi Avati "Una gita scolastica" del 1983, che entrava in Toscana dal versante pistoiese anziché da quello fiorentino, da Porretta anzichè dalla Futa: ma l'avventura è quella. 
   Tornando alla mini versione affrontata il 6 agosto scorso, l'anello del Monte Gàzzaro inizia appunto dal Passo della Futa. In particolare, provenendo in auto da Firenze, occorre prendere la deviazione per Firenzuola prima di arrivare proprio al Passo, e cioè occorre imboccare la strada che poi passa per Cornacchiaia (e quindi non quella che, dopo il Passo, prosegue per la Raticosa attraversando Covigliaio ed ha anch'essa una deviazione per Firenzuola).
   Subito dopo aver imboccato questa strada, sulla destra si trova uno spiazzo di parcheggio con una cabina elettrica. Da lì inizia il sentiero "00" che porta al Monte Gazzaro e al Passo dell'Osteria Bruciata, da dove poi si diramano vari sentieri: per Castro San Martino (di nuovo sulla strada per Firenzuola), per il Passo del Giogo, per Sant'Agata del Mugello, per Marcoiano e per Castellana. Vedremo poi che è proprio quest'ultima direzione (Castellana, sentiero 50) quella che occorre prendere dall'Osteria Bruciata per completare l'anello del Monte Gàzzaro, con una successiva deviazione attraverso il sentiero 12 che risale il pendio fino a tornare sul crinale ove si ritrova il sentiero 00 che a destra va sul Gàzzaro e a sinistra torna alla Futa.
   Il sentiero 00 inizia in salita e, come molti altri tratti del percorso, è caratterizzato da profondi solchi causati dallo scorrimento delle acque piovane ma anche - come attestano le impronte sul fango - da moto da cross. Questi solchi in alcuni punti rendono disagevole il cammino restringendo la zona calpestabile del terreno. Si procede con salite a volte anche ripide, inoltrandoci presto in un fitto bosco. Il sentiero è ampio e ben tenuto. Dopo un po' si incontra sulla sinistra un grande pannello ripetitore, poi alcune discese alternate alla predominante salita, con tratti fuori dal bosco circondati da felci. Dopo circa cinquanta minuti si giunge all'intersecazione col sentiero - con relativa indicazione - che sale da valle e che proviene dall'Osteria Bruciata (raggiungibile quindi anche da qui, se si sceglie di abbandonare la salita al Monte Gàzzaro).
  Si procede con vari saliscendi (più sali che scendi, comunque)  e si comincia a scorgere l'alta antenna del Monte. Quando la si è quasi raggiunta - circa un'ora e mezzo dall'inizio del sentiero -  si vede anche la Croce e la piccola nicchia dove si trova, in una custodia di metallo, il libro dei viandanti. Il punto è molto panoramico, ma - nonostante la giornata sia splendida ed il cielo abbastanza pulito per la pioggia del giorno precedente - non si scorge certo il Mar Tirreno e le isole dell'arcipelago, come alcune guide raccontano.  Non siamo tuttavia proprio sulla vetta del Gàzzaro, che si raggiunge dopo un po' proseguendo lungo lo stesso sentiero che continua a salire, inizialmente in mezzo al prato e poi inoltrandosi nel bosco. La prossima meta è il Passo dell'Osteria Bruciata. Un cartello indica una breve deviazione a destra per un punto panoramico sul versante che guarda la vallata sottostante. La discesa è un po' problematica per la forte pendenza ed il terreno non molto stabile e, in caso di recenti piogge, anche assai scivoloso. Conviene essere muniti di un solido bastone ed aiutarsi tenendosi alle piante che costeggiano il sentiero, che in alcuni punti è corredato di catenelle metalliche per un appiglio in caso di scivolamenti. La discesa appare lunga, più lunga di quanto non sia in realtà, anche per il fastidio causato dalle problematicità del sentiero. Dopo un po' si inizia a scorgere, in basso a destra, un sentiero largo: è il n. 50 proveniente dall'Osteria Bruciata che si dovrà poi percorrere per chiudere l'anello. 
   Dopo circa due ore e mezzo dalla partenza, si giunge finalmente al passo dell'Osteria Bruciata, indicato da un cippo triangolare in pietra in ricordo della vecchia Osteria. La leggenda narra che l'oste era solito uccidere nel sonno i viandanti ai quali dava alloggio per poi derubarli. Quando fu scoperto, la vendetta si realizzò dando fuoco all'osteria (e, si immagina, anche all'oste). Ci si trova su uno spiazzo pianeggiante privo di ogni struttura al di là del cippo e dei cartelli dei sei sentieri che lì si incrociano: in senso orario, quello appena percorso che viene dal Gàzzaro, quello che viene da Castro San Martino e quindi da Firenzuola, quello che viene dal Passo del Giogo, quello che va verso Sant'Agata, quello per Marcoiano e quello per Castellana. Per l'escursione con partenza e ritorno al Passo della Futa, l'Osteria bruciata è il punto ideale per fermarsi a mangiare sul prato. Si riparte prendendo il sentiero 50 per Castellana, molto fangoso in caso di piogge recenti e martoriato dai profondi solchi causati dall'acqua e dalle moto da cross. Dopo circa dieci minuti, sulla destra c'è l'indicazione di una vicina sorgente; poco dopo inizia sulla sinistra il sentiero 48 per Marcoiano, da ignorare. Il sentiero alterna salite, discese e tratti pianeggianti, quasi sempre all'ombra di alti faggi. Si attraversano vari rigagnoli d'acqua. Si ignorano vari accenni di deviazioni sulla destra fino a trovare quella giusta chiaramente segnalata da un cartello che indica la via per il ricongiungimento col sentiero 00 della Futa. La salita sempre in mezzo ai faggi, a tratti molto ripida, è più lunga del previsto (in salita accade spesso...). 
   Si giunge infine ad incrociare il sentiero 00, che si prende a sinistra in direzione del Passo della Futa. Si incontra il pannello già trovato all'andata e si arriva dopo un po' allo spiazzo sulla strada per Firenzuola: in tutto circa 4 ore e 40, escluse le soste.

   Si tratta di un'escursione molto bella ed alla portata anche di chi non è un camminatore esperto, anche se il tratto in discesa dal Gàzzaro all'Osteria Bruciata richiede moltissima attenzione. Si attraversa un paesaggio naturalistico dal quale si tengono ancora lontani i segni della vita moderna di tutti i giorni, con le sole eccezioni del grande ripetitore rettangolare e delle impronte delle moto che danneggiano il sentiero con profonde incisioni. In più punti la vista spazia ora sul versante del Mugello, nel quale domina la vista dall'alto del Lago di Bilancino, ora sulla conca di Firenzuola e verso la cerchia di monti che la cingono a settentrione. Sarebbe interessante poter conoscere il nome di quelle lontane giogaie che si susseguono limpide di fronte a noi e che restano invece anonime, ma questo forse - a ben pensarci - aumenta l'arcana suggestione che avvolge l'affaticato ma soddisfatto escursionista.

   Capita di imbattersi nelle allegre brigate di ragazzi che percorrono il "sentiero degli dei" e, se ci si ferma a scambiare con loro due chiacchiere, magari durante lo spuntino all'Osteria Bruciata, può capitare di rimanere sorpresi dalla riflessione che loro spontaneamente ti fanno sul contrasto tra i cinque-sei giorni che hanno deciso di impiegare per attraversare a piedi l'Appennino ed i trentacinque minuti che invece servono per coprire la stessa distanza grazie all'Alta Velocità sulla nuova linea ferroviaria Bologna-Firenze. Soluzioni diverse per esigenze diverse, ma è bello constatare la sopravvivenza di un desiderio di immersione nel territorio per viverlo, pagando generosamente il prezzo di una fatica che alla fine cessa di essere un corrispettivo per un bene desiderato, per confondersi col bene stesso aumentandolo di valore.

venerdì 1 agosto 2014

"La compagnia di Ramazzotto" di Carlo Flamigni - Ed Sellerio


    Chi non sia un cultore di storia scoprirà cosa sia la compagnia di Ramazzotto solo verso fine del romanzo, dove troverà anche una dotta citazione dalla Storia d'Italia di Francesco Guicciardini;  questo curioso riferimento è l'elemento più sapido dell'intero romanzo, al quale quindi giustamente dà il titolo. La romagnola compagnia di Ramazzotto di Flamigni è quella composta dai vari personaggi “buoni”, una specie di armata brancaleone un po' scalcagnata e incerottata; in quella storica, rievocata dal Guicciardini, uno era cieco, uno era zoppo, e quello davanti, che teneva lo scudo ("scud") morì per via d'uno sputo ("spud").
   I personaggi di questa vicenda ambientata in Romagna, par di capire tra Cesena, Forlì e Rimini con qualche necessaria puntata nell'emiliana Bologna sede universitaria, sono tutti molto improbabili. Primo Casadei, il protagonista, ha una moglie cinese - che parla romagnolo stretto e che della cucina locale è una maga – e due gemelline; la famigliola vive ospite in casa di un anziano amico, chiamato Proverbio per la sua tendenza ad esprimersi coi motti della vecchia saggezza romagnola. Con loro vive anche un certo Pavolone, giovane solitario e bonario che la natura ha beneficiato solo nel fisico possente, con un solo punto debole causato da un'improvvida liposuzione. Perché queste sei persone vivano insieme non è dato sapere, se si eccettua il vincolo di amicizia tra Primo e Proverbio, padrone di casa.
   La vicenda trae origine da un delitto: l'uccisione di un docente universitario – il bravo, buono e di sinistra Prof. Stelio Benelli, ordinario di chimica – nell'ambito di un torbido intrigo sorto attorno alla distribuzione di alcune cattedre e  all'elezione del nuovo Rettore, attorno al quale – a sua volta – ruoterebbe un progetto speculativo per la realizzazione sulla costa romagnola di una sede distaccata dell'Università. Benelli, nonostante avesse ricevuto varie sollecitazioni, non corre per il prestigioso incarico, ma appoggia uno dei due candidati (ovviamente quello buono). 
   Nella rossa Romagna, questa speculazione per un intervento pubblico su aree acquistate appositamente dai comuni da parte di una vasta congrega di malavitosi vicini alla destra (come lo è uno dei due candidati a Rettore, che è ovviamente della partita), avverrebbe ovviamente all'insaputa delle amministrazioni locali, che essendo rosse non possono che essere aliene da ogni contaminazione affaristica - ma d'altronde deve esser così, altrimenti il romanzo lo si sarebbe dovuto ambientare in altra parte d'Italia. L'autore deve avvertire l'inverosimiglianza della rappresentazione, ed infatti ad un certo punto fa intervenire un assessore che sull'argomento si addentra in un oscuro e sofferto discorso dal quale gli interlocutori - ma anche molti lettori - non ci capiscono molto, se non che la politica che governa quelle terre è ovviamente candida (o meglio rossa) come un giglio ... pur non essendolo (e non essendolo, ovviamente, con suo grande dolore).  Cioè, ci vuol dire Flamigni (che a quella politica attiva non deve essere estraneo), candida lo è per definizione, e tanto deve bastare anche al buon Balilla, vecchio compagno d'altri tempi, che assiste sconcertato alle spiegazioni del compagno assessore. 
   Parte quindi un'indagine parallela da parte della compagnia di Ramazzotto - Primo Casadei, Proverbio, Pavolone ecc. - con la partecipazione straordinaria di Mirta, vedova del povero Stelio Benelli ed ex fiamma di Primo. Quest'ultimo, pur arruolato, nell'esercito dei buoni, ha qualche sassolino nella scarpa per le sue giovanili frequentazioni nella manovalanza a favore di un malavitoso napoletano che ha un proprio centro d'affari anche nella zona romagnola. Tuttavia, cessato questo pericoloso impiego, Primo è diventato uno scrittore affermato ed un appassionato di storia. A volte accade, perché no.
   Ovviamente, dopo alcuni ammazzamenti e varie ammaccature, il caso viene risolto, ma il finale lascia intravedere come il Casadei non abbia abbandonato del tutto alcune inquietanti abitudini risalenti alla sua prima vita.

   Nel romanzo si fa largo uso di espressioni dialettali in romagnolo stretto, quasi sempre tradotte; ed è un bene perché a differenza del siciliano di Camilleri – comprensibile anche con un minimo sforzo - il romagnolo di Flamigni sarebbe, per chi non è romagnolo, assolutamente incomprensibile. Tradotte, e quindi rilette conoscendone il significato, quelle espressioni diventano invece chiarissime e gustosissime, come gustoso è sentir parlare un romagnolo. Deve dipender anche dalla diversa attitudine delle due parlate ad essere espresse per scritto. O anche dal fatto - che forse è la stessa cosa - che il siciliano è più vicino all'italiano del romagnolo. 

   "La compagnia di Ramazzotto" è un romanzo che non fa economie di banalità e di situazioni improbabili; l'unica cosa non improbabile è la buona qualità di scrittura dell'autore, che - pur essendo professore di Ginecologia ed Ostetricia all'Università di Bologna - sa condurre bene la danza letteraria lungo le sue duecentocinquanta pagine, le quali, altrimenti, avrebbero in molti punti, e anche nel loro complesso, rasentato il ridicolo - che è qualcosa di diverso da quel sottile humour ironico che  talora valorizza testi di questo genere.  

   Se il genere “noir” si differenzia dal giallo per il fatto che in esso sono i personaggi ed i loro risvolti, più che la trama e l'indagine, ad essere in prima linea, “La compagnia di Ramazzotto” di Carlo Flamigni dovrebbe essere catalogato tra i “noir”, dato che qui la trama a volte sfugge, passa attraverso forzature e banalità, percorre sentieri precari e improbabili. Però, a ben vedere, assai improbabili sono anche i personaggi, e quindi conviene lasciar perdere l'esatta collocazione del romanzo nell'uno o nell'altro genere, anche perché - ove la confusione non bastasse - gli elementi un po' comici (e non sempre volontari...) contribuiscono a renderla oltremodo difficoltosa. 

martedì 24 giugno 2014

Il "nuovo Senato" fa tornare alla ribalta l'immunità parlamentare

La recente ipotesi di accordo sulla riforma del Senato ha riportato alla ribalta il tema della immunità parlamentare. 
L'immunità fu prevista dalla Costituzione per porre un argine alle iniziative giudiziarie ai danni di parlamentari scomodi per il potere, come era accaduto spesso durante il ventennio fascista.
L'immunità ha un senso quando vi sia una contaminazione reciproca tra il potere giudiziario e parti della politica.
L'immunità è invece un privilegio ingiustificato quando il potere giudiziario ha fama di indipendenza, tanto che solo pochi faziosi possano seriamente sostenere che un'azione penale contro un parlamentare sia originata da lotta politica.
A questi fini, che l'ordine giudiziario si atteggi nel primo o nel secondo modo non è solo un dato oggettivo, ma dipende dalla credibilità che esso si è meritato nell'opinione dei cittadini: questa credibilità, che ovviamente non può essere totale, deve essere comunque vasta e diffusa nelle varie componenti della società senza distinzione di appartenenza partitica.
Si potrebbe seriamente riflettere in quale situazione ci troviamo oggi, e poi decidere se l'immunità - purtroppo - serva oppure sia - per fortuna - un inaccettabile privilegio.
Peraltro la credibilità dell'ordine giudiziario può essere messa in dubbio non tanto dall'esercizio dell'azione penale, fondata, contro alcuni presunti colpevoli, quanto anche dall'omissione verso altri anch'essi fondatamente presunti colpevoli. Forse è questo il problema più attuale e spinoso: che vi sia cioè in Italia, per alcuni, una immunità parlamentare nascosta e sotterranea, che, proprio per questo, è difficile abolire per legge. 

mercoledì 4 giugno 2014

I moderati italiani e le elezioni

Le recenti elezioni europee in Italia hanno indotto molti commentatori a celebrare - assieme al successo renziano - la definitiva scomparsa dei "moderati", attestata da quello 0,7% del partito montiano e del risultato modesto ottenuto dal neo partito di Alfano.
Ma chi sono - o sono stati ... - i moderati? 
 E' difficile definire i moderati italiani in politica.
In maniera un po' brutale si potrebbero definire moderati coloro i quali - in Italia - hanno in ùggia la sinistra per la sua vuota retorica e per il velleitarismo un po' minaccioso che colora l'aspirazione alla giustizia sociale. Anche i moderati sono solidali - non molti per la verità - ma vedono la strada verso la giustizia sociale come una strada non punitiva. Non vogliono, i moderati, redistribuire la ricchezza togliendone un po' a qualcuno per darla ad altri; vorrebbero crearne di più, così che ce ne fosse per tutti. Non necessariamente nella stessa misura, ma sufficiente per tutti. Sono un po' restii a cedere la loro, di ricchezza (quando ce l'hanno) ma non aspirano ad ingigantire le differenze sociali, vorrebbero anzi ridurle, per stare più tranquilli - loro massima aspirazione. 
I moderati italiani hanno effettivamente meno remore verso la destra ed a volte la votano: quando lo ritengono indispensabile per non  far vincere la sinistra, della quale hanno sempre diffidato senza mai essersi dovuti rammaricare di averlo fatto. Anzi: nel 1948 impedirono un bel guaio; furono degli eroi. E, forse esagerando nel timore per la sinistra, nel 1994 ripeterono la stessa operazione riuscendo in exstremis a tener fuori dal governo la sinistra guidata da Occhetto che pareva non avere più rivali.  Scese in campo Berlusconi, e vinse; ma  se nel 1994 fosse sceso in campo, contro la sinistra, Paolino Paperino da Paperopoli, avrebbe vinto lui. Ci sono riusciti sempre, a ben vedere, a non  far vincere la sinistra: con la DC per quaranta anni, con Berlusconi per venti, l'anno scorso con Grillo. 
Ma anche la destra a volte li spaventa: quando è troppo oltranzista. In questi casi cercano altre nicchie. 
I moderati italiani sono da venti anni senza casa e devono vivere in casa d'altri: negli ultimi anni, un po' nel PD, un po' con Berlusconi, un po' nei vari partitini di centro. Non molti nel PD, quando imperava la Ditta di Bersani e predecessori. I moderati italiani possono anche votare PD, ma senza trasporto e - soprattutto - non è per il fatto di votarlo che diventano di sinistra. Errore gravissimo il crederlo.
Bersani, l'anno scorso, sottovalutò i moderati e si alleò con Vendola per un "governo di cambiamento". Niente può insospettire di più i moderati italiani.  Così Bersani prese il 25% e perse elezioni già vinte, come Occhetto nel 1994.
Renzi quest'anno - che i moderati li conosce bene -  sapeva dove erano, è andato a cercarli con la faccia giusta per vincere la loro diffidenza e li ha trovati. Anziché il 25% ha avuto il 41%.
Ma è lui che è andato da loro, non loro da lui. Loro, non sono diventati di sinistra (figurarsi!): son rimasti quel che sono sempre stati. Moderati. Non è stata la montagna ad andare a Maometto, ma Maometto (il PD di Renzi) ad andare alla montagna. Finché Maometto resta lì sulla montagna, tutti insieme fanno il 41% o anche più. Ma se Maometto torna a casa, la montagna non lo segue, rimane dove è sempre stata, magari un po' dispersa, ma sempre sufficiente ad impedire che la sinistra vinca le elezioni in Italia.
I moderati italiani sono in realtà lo zoccolo duro dell'elettorato. Da quando non hanno più un loro partito, accettano di essere ospitati ora qui e ora là e, nell'imbarazzo di essere senza fissa dimora, fanno finta di  non esserci. Ma vincono sempre loro.

lunedì 24 marzo 2014

Caso Moro: i misteri fasulli ed il mistero vero.

Tornano in questi giorni gli echi del caso Moro. Si legge di presunte rivelazioni secondo le quali in via Fani quel fatidico 16 marzo 1978 sarebbe stata discretamente presente una moto con a bordo due agenti dei servizi con lo scopo di guardare le spalle alle Brigate Rosse che dovevano rapire Moro e uccidere la sua scorta.  Da più parti è venuto il commento: "Eh, lo sapevamo".
Si ha l'impressione che vi sia una diffusa illusione di sapere tutto, forse troppo, sul caso Moro. Si può invece credere che si sappia ancora ben poco e che storicamente vadano assunte con la dovuta prudenza le periodiche "rivelazioni" come quella di questi giorni, o come quella della quale si è fatto ingenuamente portavoce Ferdinando Imposimato nel suo libro "I 55 giorni che cambiarono l'Italia", della quale ha fatto giustizia la magistratura con l'incriminazione della sua fonte (si veda, su questo blog, il post del 9.11.2013 "Tecniche d'indagine italiane").
Moro fu rapito ed ucciso dalle Brigate Rosse, che erano appunto rosse come ebbe a rammaricarsi - e non a nascondere - l'indimenticato Sandro Pertini. Le Brigate Rosse operavano in Italia da diversi anni prima di quel 1978 e continuarono poi per qualche altro anno a spargere sangue: non erano quindi un fenomeno posticcio creato ad arte dalla CIA per far fuori Moro. Per il KGB russo il discorso potrebbe essere diverso: le Brigate Rosse venivano addestrate militarmente e strategicamente nei paesi del blocco sovietico.
Quando fu rapito ed ucciso, Moro stava facendo fare i primi concreti passi ad un progetto politico che allarmava USA e URSS in pari misura, o forse più l'URSS degli USA. E qui viene il vero grande mistero storico del caso Moro. Perché il PCI, la sinistra DC, Andreotti e Cossiga - i suoi variegati alleati - furono i più strenui sostenitori della cosiddetta "linea della fermezza" e cioè - fuor di metafora - dell'uccisione di Moro, poiché era anche allora chiaro a tutti che non trattare voleva dire far uccidere il presidente della DC? La motivazione ufficiale fu quella dell'affermazione dell'inflessibilità dello Stato, del suo non piegarsi agli eversori. Curioso che lo Stato Italiano solo in quella occasione abbia ritenuto necessario tenere la schiena dritta. Curioso, e sospetto. Si sapeva che la morte di Moro avrebbe affossato un progetto che indisponeva entrambe le opposte sponde della guerra fredda, ma questo non è certo un mistero, non è certo questo il mistero: non sarebbe stata la prima volta quella di una convergenza su un obbiettivo che avrebbe favorito entrambi. Il vero grande mistero è un altro: perché una larga parte della politica italiana, ben sapendo che il rifiuto della trattativa avrebbe comportato l'esecuzione della pena capitale, volle la morte di Moro? La motivazione della “fermezza dello Stato” non regge: smentita dai fatti in tutti gli altri casi precedenti e successivi. No, quella volta, anche in assenza di una complicità sul suo rapimento, la politica italiana colse lesta l'occasione per sbarazzarsi di Moro. Perché? E' questo che non sappiamo ed è la lacuna storica più grande.

Oggi, mentre ricordiamo con un film il trentennale della morte di Enrico Berlinguer (1984) sarebbe il caso di abbandonare i fatui “lo sapevamo” coi quali accogliamo le periodiche rivelazioni e – partendo dall'analisi storica di quel grand'uomo che fu Berlinguer – cercar di capire perché quegli uomini, dei quali egli fu il leader più duro ed irremovibile, vollero che Moro non tornasse più tra loro. Il film di Veltroni non è ancora uscito, ma pare che non si ponga   questa domanda, la cui risposta sarebbe l'alfa e l'omega della storia d'Italia degli ultimi quaranta anni.   

domenica 23 marzo 2014

In viaggio con don Cuba

Fino al 2 aprile prossimo si può visitare a Firenze la mostra “In viaggio con don Cuba” nella galleria delle Carrozze al piano terreno del palazzo Medici Riccardi (orario 11-19; chiuso il lunedì).
E' un allestimento curato da Lorenzo Bojola che ci fa percorrere lo straordinario viaggio compiuto da don Danilo Cubattoli nel 1954, assieme all'amico Steve (Stefano Ugolini), attraverso tre continenti – Europa, Asia, Africa – su due moto Motom Delfino; quella di Don Cuba accoglie il visitatore proprio all'ingresso.
Don Cuba, ordinato sacerdote nel 1948, era originario di San Donato in Poggio, dove era nato nel 1922 e nel cui cimitero riposa dal dicembre del 2006. Prete sui generis ma mai ribelle, poco adatto alla cura parrocchiale, dove le anime vengono da sole, e sempre “proiettato in fuori” a cercare quelle lontane. Diceva di essersi fatto prete per quelli che avevano a noia i preti. Bisognava quindi andare a cercarli, costoro, nei bar di San Frediano, dove nella miseria del dopoguerra si consumavano in pari dose vino e bestemmie; o tra i ladruncoli di Piazza de' Nerli o di via del Campuccio; o fra i ragazzacci delle bande di Via del Piaggione o di Piazza del Carmine. E poi i carcerati, prima alle Murate, dopo a Sollicciano. Il suo rapporto con San Frediano durato tutta la vita era nato ai tempi del seminario di Cestello, durante la guerra e la fame di quella gente. "S'ha fame a pane": era il grido che Don Cuba raccontava di udire dalle finestre del seminario. Pane, non brioche. "Babbo, bisogna che tu mi porti un po' di filoni di pane, per questi ragazzi". E il babbo, da San Donato in Poggio, glieli portava. Era lui a cercare gli altri, ma chi lo cercava, lo trovava: o in San Frediano, o alla Villa Favorita del Galluzzo dove viveva presso le suore elisabettine, o – d'estate – alla colonia di Molino a Fuoco vicino a Vada. Negli ultimi anni, quando erano ormai entrambi vecchi, Steve, per invitarlo a pranzo, gli metteva un bigliettino sotto il sellino della moto parcheggiata davanti a Sollicciano e lui la domenica si presentava con un carcerato che gli era stato affidato e con semplicità spiegava alla moglie di Steve, nel quieto dopopranzo, che quell'uomo silenzioso e sorridente – che nel frattempo era uscito in giardino a giocare coi figli della coppia - era in carcere per aver ucciso due bambini, anni prima. Cuba era introvabile solo in occasione delle mostre del cinema, sua grande passione perché strumento di dialogo e di avvicinamento. Cuba accompagnò al cimitero di Mercatale Pietro Pacciani e lo benedisse, in un funerale a due – prete e morto, nessun altro aveva osato essere presente. Quel giorno il Cuba aveva veramente raggiunto l'ultimo uomo del mondo. Un viaggio lunghissimo e periglioso ben più di quello in Africa.


Don Danilo Cubattoli (1922 - 2006)

Percorrendo la sala delle Carrozze ci si sofferma sulle varie tappe del viaggio e sugli eventi avventurosi che un'impresa del genere porta con sé. Sì. Tutto molto interessante ed in certi momenti il cuore sale in gola al visitatore che ha la fortuna di avere dei ricordi diretti. Ma una domanda si insinua, indiscreta e fastidiosa. Perché? Cosa spinse Don Cuba a fare quel viaggio che mise in apprensione i suoi amici, il babbo, la sorella, il cardinale Dalla Costa che gli aveva dato il permesso, il sindaco La Pira, la Ghita Vogel, la Fioretta Mazzei, le suorine della Favorita Suor Rina, Suor Germana, Suor Barbarina, Suor Evangelina?
Certo, Cuba voleva celebrare la messa sul Kilimangiaro, in onore dei lavoratori di tutto il mondo. E lo fece. Voleva trovare la tomba del sanfredianino Dante Cellai nella distesa di croci di El Alamein, per portarne una foto alla mamma. E lo fece. Voleva portare i messaggi di La Pira alle varie personalità dei paesi attraversati, e lo fece. Doveva scrivere qualche reportage per il “Giornale del mattino” in cambio di un modesto aiuto per le spese. Mah .. era questo che spinse Cuba a quel viaggio?
Nel fascicolo che illustra la mostra ad un certo punto si leggono queste parole della moglie di Steve: “Se tu avessi chiesto direttamente al Cuba quali furono i motivi di quel viaggio, lui ti avrebbe risposto, semplicemente, che era una bella avventura per conoscere il mondo.” Risposta probabilmente vera; semplice, ma coerente con la semplicità del Cuba, per il quale molte cose erano semplici perché egli andava oltre di esse e sapeva quanto solide e chiare fossero le fondamenta sulle quali poggiavano. La semplicità c'era, ed era vera, ma era un po' più in là di quella che tutti potevano vedere.
Rimuginando su questo interrogativo non risolto da risposte parziali e mai del tutto soddisfacenti, un paio di giorni dopo mi capita l'inatteso dono di leggere sul Corriere della Sera di domenica 9 marzo l'appunto del cardinale di Cuba (o perbacco, le coincidenze!) Jaime Lucas Ortega y Alamino nel quale l'elettore papale riporta le parole pronunciate dal cardinale Jorge Mario Bergoglio il 9 marzo dell'anno scorso, in una delle riunioni che precedettero il conclave. “Nell'Apocalisse Gesù dice che Lui sta sulla soglia e chiama. Evidentemente il testo si riferisce al fatto che Lui sta fuori dalla porta e bussa per entrare ... Però a volte penso che Gesù bussi da dentro, perché lo lasciamo uscire ... Pensando al prossimo Papa: un uomo che, attraverso la contemplazione di Gesù Cristo e l'adorazione di Gesù Cristo aiuti la Chiesa a uscire da sé stessa verso le periferie esistenziali ...”.

Ecco com'è nato quel viaggio: Don Cuba ha bussato da dentro.



Galluzzo - Villa Favorita - La "Motom Delfino" di don Cuba
Luglio 1955











       

sabato 8 marzo 2014

Renzeide, primi atti.

Chi osservi con distacco gli stati d'animo che si agitano nella sinistra italiana dopo l'avvento del governo Renzi può scorgere da un lato coloro i quali celebrano con un po' di boria la conquista del potere: tanto la desideravano da non porsi il problema della collocazione a sinistra o meno del premier secondo le categorie politiche a.M (avanti Matteo). Costoro avvertono il fastidio di quei sassolini nella scarpa che rispondono ai nomi di Alfano ecc., ma istintivamente li rimuovono per non turbare l'estasi del momento magico: la sinistra al potere!
Da un altro lato vi sono coloro i quali vedono quei sassolini come macigni e protestano contro l'usurpazione subita a loro avviso dalla sinistra finalmente vittoriosa ma così timida da subire i condizionamenti dei poteri forti.
Gli uni e gli altri partono da un presupposto comune: la sinistra ha vinto. Si dividono invece su come sia stata utilizzata la vittoria.
Però alle elezioni dello scorso anno il PD (a.M) ha raggiunto appena il 25,4%, cioè meno del PCI nel 1963, mezzo secolo prima (25,6%). La coalizione di centrosinistra è arrivata al 29,5% grazie all'apporto congiunto di Vendola, Bersani, Tabacci e Durnwalder (decisivo con la sua rivoluzionaria Sudtiroler Volkspartei: senza questo apporto il premio di maggioranza l'avrebbe carpito il centrodestra). Con questa “vittoria” il PD ha conseguito circa 150 seggi parlamentari in più rispetto a quanti gliene sarebbero spettati proporzionalmente e grazie a questo regalo, conseguito in virtù di una legge costituzionalmente illegittima, ha egemonizzato il panorama politico; ciò nonostante qualcuno non è neppure del tutto contento e avrebbe voluto di più (la maggioranza assoluta anche al Senato, con meno del 30% dei voti!).
Sarebbe quindi il caso di suggerire al PD (d.M) di valutare con più disincanto la propria reale forza rappresentativa - che alle ultime elezioni di un anno fa si dimostrò modesta - e di usarla non per disegnare a propria immagine le magnifiche sorti e progressive del millennio, ma solo per dare una prima risposta ai più urgenti problemi economico-occupazionali e per approvare una legge elettorale con la quale gli italiani possano, prima possibile, eleggere un Parlamento nei rispetto dei principi costituzionali oggi violati. Un Parlamento che, eletto in modo costituzionalmente corretto, sia anche legittimato - diversamente dall'attuale - ad assumere decisioni di rilevante portata e proiettate nel tempo.
Invece, in presenza della evidente distorsione del principio di rappresentatività democratica, sanzionata ufficialmente dalla sentenza della Corte Costituzionale, si parla di un Governo e di un Parlamento che dovrebbero durare fino al 2018,  utilizzando l'alterata ripartizione dei seggi per assumere decisioni anche rilevanti, come sicuramente sarà necessario in un arco temporale così prolungato.

Dalle pur suggestive narrazioni di Renzi alla Camera ed al Senato pochi sono riusciti a capire quale sia il programma del nuovo Governo. Subito dopo, nelle varie interviste, Renzi ha eluso domande specifiche soprattutto in campo economico, trincerandosi dietro un "aspettate e vedrete" che può stare bene sulle labbra anche di chi non sa - perché ancora non glielo hanno detto - ma vuol far credere di sapere. E' sicuramente presto per dare giudizi, ma non per essere pervasi da dubbi. Nel Regno Unito esiste un governo effettivo ed un "governo-ombra"; anche da noi in passato il centrosinistra ha formato dei propri governi-ombra quando era all'opposizione. In questi casi è chiaro chi governa e chi sta a guardare. Forse qui da noi sta accadendo l'opposto: un "governo-ombra" - dalla faccia poco presentabile - che governa appunto nell'ombra (di ridenti vallate elvetiche, sebbene con ufficio stampa a Roma), ed un governo ufficiale che - in cambio di una scintillante ma innocua play-station con la quale si gioca al governo della Repubblica - ci mette la faccia, dato che, a differenza di quella tenuta nell'ombra, questa è giovane ed accattivante.

Il dubbio di decisioni già assunte “altrove” sembra confermato anche da una curiosa sequenza di dichiarazioni sulle misure economiche. In sede europea, Oli Rehn dopo l'insediamento del governo ha dichiarato: “Padoan sa cosa deve fare”. Pochi giorni dopo, il neo ministro all'Economia Padoan ha rilanciato: ”Il governo sa cosa c'è da fare” e Renzi, alla sua prima uscita a Bruxelles, ha confermato “L'Italia sa perfettamente cosa deve fare”.
Qui tutti lo sanno che cosa c'è da fare, ma non ce lo dicono. Siccome però, alla fine, quello che c'è da fare toccherà farlo a noi, potrebbero avere almeno la compiacenza di dirci cosa?


martedì 25 febbraio 2014

L'oblio di Eugenio Corti

E' passata quasi sotto silenzio la scomparsa di Eugenio Corti (1921-2014), avvenuta a Besana Brianza il 4 febbraio scorso.  “Eugenio Corti chi?”. La domanda sorgerà  spontanea in molti a sentire il nome di questo scrittore brianzolo. La sua opera principale, monumentale, è “Il cavallo rosso”: un'opera di grande respiro, ponderosa, scritta forse con uno stile letterario non eccelso ma capace di raggiungere l'obbiettivo al quale dovrebbe tendere ogni opera letteraria, quello di avvincere il lettore e toccarne indelebilmente l'anima. Sullo sfondo della Brianza laboriosa e solidale nella quale sono radicati i personaggi, fortemente avvinta ai suoi valori, il romanzo, con un sottofondo autobiografico, passa dall'agghiacciante cronaca della rovinosa ritirata dal fronte russo nell'ultima guerra alla lotta partigiana, ai primi anni dell'Università Cattolica a Milano con la figura di Padre Agostino Gemelli, alla liberazione e al dopoguerra con la ripresa della libera competizione tra opinioni diverse, alle molte delusioni che ne seguirono dopo i primi anni eroici della salvezza democratica e della ricostruzione. 
Certo, Corti non è stato – come oggi si direbbe – bipartisan. No, per lui il bene stava da una parte ed il male dall'altra e in tanti passi de “Il cavallo rosso” ciò emerge, ma non disturba il lettore sereno: suscita anzi un senso di vicinanza e induce ad uno sforzo di comprensione. Questo dividere il mondo in due è forse il limite maggiore di Corti ed è stato pagato duramente col più rigoroso isolamento nel panorama letterario italiano. Lui, però, il bene ed il male l'aveva visto coi suoi occhi alle massime espressioni ed un po' di credito gli va dato, soprattutto da parte nostra che queste categorie le conosciamo per sentito dire e le trattiamo con un po' di supponenza. In questa epoca nella quale ogni giorno ci vengono pomposamente presentate come capolavori opere letterarie con le gambe corte e la sintassi sbilenca (e sotto sotto si scopre sempre la manina della politica), l'oblio nel quale è stato relegato Eugenio Corti, grazie a quella stessa manina,  pare esemplare di ciò che non dovremmo essere ed invece siamo.   

martedì 18 febbraio 2014

Scherzi e cose serie, molto serie.

Lo scherzo giocato oggi da "La Zanzara" all'ex ministro Barca non è una burla, ma un fatto molto grave.
Fabrizio Barca, esponente della sinistra del PD e già ministro nel governo Monti, è stato raggiunto per telefono da un interlocutore che, fingendosi Vendola ed imitandone la voce, ha avviato un discorso sull'attuale momento politico. Qui Barca, ignaro che si trattasse di uno scherzo,  ha iniziato uno sfogo che ha riguardato il suo dissenso sull'operazione Renzi, giungendo poi a lamentarsi delle pressioni che avrebbe ricevuto per entrare nel governo: ha infatti sostenuto che la staffetta Letta-Renzi è stata sponsorizzata da De Benedetti, proprietario del gruppo editoriale La Repubblica, e che per la formazione del governo lo stesso De Benedetti avrebbe fatto pressioni continue ed insistite - non si è capito se direttamente o tramite giornalisti dipendenti del suo gruppo editoriale -  perché lo stesso Barca accettasse di far parte del governo.
De Benedetti ha subito smentito; una giornalista, citata da Barca, ha precisato di aver sì preso contatti con Barca, però  non su mandato del suo datore di lavoro, ma in quanto giornalista e quindi semplicemente per avere informazioni. La precisazione della giornalista può avere il suo fondamento - e poi si vedrà, se Barca deciderà di essere più preciso - mentre il riferimento a De Benedetti è molto più attendibile proprio per le modalità con le quali la rivelazione è stata carpita all'ignaro ex ministro. 
Partendo da questa oggettiva attendibilità si delinea una situazione molto grave. 
Un cittadino svizzero, quale è De Benedetti, che ha importanti attività imprenditoriali in Italia, anche nel campo dell'informazione ma non solo, sarebbe l'ispiratore, o comunque il cooperatore, di una operazione politica che ha portato alla caduta di un governo della Repubblica Italiana  e si starebbe occupando della scelta dei ministri del nuovo governo. 
E' un fatto unico nel panorama delle democrazie occidentali: un privato cittadino straniero influisce dall'estero sugli equilibri governativi di un Paese nel quale egli è titolare di rilevanti interessi economici. 
Si immagina che nei prossimi giorni la magistratura valuterà la sussistenza di ipotesi di reato in tali interferenze negli aspetti istituzionali della Repubblica Italiana e che agirà di conseguenza.
Sul piano politico, si conferma una convinzione: i conflitti di interesse politica-informazione- imprenditoria devono essere inflessibilmente combattuti, soprattutto quelli occulti, i quali proprio per questo sono più pericolosi per la democrazia di quelli palesi.

venerdì 14 febbraio 2014

Arriva Renzi.

(I)  In pochi giorni ciò che veniva escluso ("Chi me lo fa fare?"; "Enrico, stai sereno") si è puntualmente verificato: Matteo Renzi fa uscire di scena Enrico Letta e si prepara a prenderne il posto.
Il governo Letta non aveva certo brillato: pochi risultati raggiunti (forse nessuno se si guarda a quelli più significativi: ripresa dell'occupazione, nuova legge elettorale), molti incidenti di percorso (la ministra Iosefa Idem e l'evasione ICI, Alfano e il caso kazako, Cancellieri e l'affare Ligresti, De Girolamo  e il bar dello zio). Probabilmente occorreva un piglio diverso per non farsi avviluppare nelle spire di una maggioranza necessitata e per non farsi paralizzare dai contrapposti interessi di bottega dei soci azionisti del governo. Però, in tutte queste difficoltà il contributo maggiore è stato proprio quello del PD, che nel governo Letta era largamente prevalente con propri ministri ed i cui impegni per le primarie - sostanzialmente un congresso - hanno frenato negli ultimi sei mesi ogni velleità riformatrice che il governo potesse avere avuto, ammesso che questa velleità ci fosse stata (ed ora non possiamo più saperlo).
Le elezioni europee sono alle porte ed un eventuale risultato deludente per il PD potrebbe mettere in grave difficoltà il neo segretario Renzi,  che avrebbe un cattivo esordio. Continuare a galleggiare con un governo deludente guidato dal proprio partito sarebbe stato rischioso per Renzi, il quale quindi ha scelto di prendere il toro per le corna e scender in campo personalmente: se va ugualmente male, almeno non avrà rimpianti.  E' probabile che cerchi di dare una riverniciata alla compagine dei ministri e alla maggioranza per attenuare le critiche a sinistra per la collaborazione con i "diversamente berlusconiani", ma avrà qualche difficoltà perché la ripartizione dei seggi parlamentari è quella che è: illegittimamente esorbitante per il PD che continua a beneficiare del premio di maggioranza dichiarato incostituzionale ma pur tuttavia ancora insufficiente - il che è tutto dire - per poter prescindere dai "diversamente berlusconiani". Il PD alle ultime elezioni di un anno fa ottenne alla Camera il 25,4% dei voti e grazie al premio di maggioranza ebbe ben 292 seggi su 630 laddove proporzionalmente gliene sarebbero spettati circa 160 (132 in regalo!) e, al Senato, col 27,4% dei voti ha avuto 105 seggi su 315: venti in più. Se ora il PD non può prescindere dall'accordo con parti del centrodestra la colpa è soprattutto di sé stesso, che non seppe vincere una partita già vinta neppure col pacco-regalo,  oggi qualificabile come illecito alla luce della sentenza della Corte costituzionale 
Tuttavia in vista delle elezioni europee di maggio le preoccupazioni per Renzi non possono ritenersi fugate con la semplice liquidazione della zavorra del governo Letta. Infatti si profila all'orizzonte delle elezioni per  il Parlamento europeo la versione italiana della lista "Tsipras" dell'omonimo esponente di sinistra greco, per la quale alcuni settori della sinistra italiana si stanno entusiasticamente mobilitando anche per sfogare un po' di frustrazione antirenziana. Alle elezioni europee il voto è di solito più libero: si va in ordine sciolto e non intruppati nelle divisioni contrapposte "Berlusconi" e "Antiberlusconi" nelle quali si milita talvolta turandosi il naso al solo scopo di non far vincere l'avversario, ma senza un reale senso di appartenenza alla bandiera sotto la quale si combatte.  Alle elezioni europee si libera il naso, si annusa, e si sceglie su quale fiore posarsi  facendoci guidare solo dal profumo che più ci piace. Le elezioni europee non hanno - purtroppo - un rilevante effetto pratico per gli elettori, sono viste come un sondaggio, come una fiera delle libere opinioni. Non è quindi da escludere che l'ala sinistra del PD colga l'occasione per dare una testimonianza della propria appartenenza ideale sapendo di non correre il rischio, facendo mancare il proprio voto al PD, di riportare al governo Berlusconi o chi per lui.
Renzi ha  necessità di un governo che allontani le elezioni anticipate ed infatti parla di un accordo per arrivare al 2018, cioè al termine naturale della legislatura iniziata l'anno scorso. Infatti egli corre seri rischi in caso di elezioni a breve. Se venissero indette prima della riforma della legge elettorale, si dovrebbe seguire il metodo proporzionale che residua dopo la sentenza della Corte costituzionale, e quindi non vincerebbe nessuno: saremmo nella situazione di oggi con la non irrilevante differenza, per il PD, di non avere più il pacco-regalo del premio di maggioranza: se ottiene il 30% dei voti alla Camera avrà 190 deputati e non 292 quanti ne ha oggi col 25% dell'anno scorso. Più di cento degli attuali deputati PD resterebbero fuori ed i rapporti di forza sarebbero meno squilibrati di oggi. Pessima soluzione per Renzi: vade retro elezioni anticipate col proporzionale. Il cane che ha l'osso in bocca non lo molla.
Se invece si tenessero le elezioni anticipate dopo l'approvazione della nuova legge elettorale secondo l'accordo "Renzi-Berlusconi" al momento c'è la concreta possibilità che vinca al primo turno il centrodestra. Per questo Renzi preferisce elezioni con la nuova legge elettorale, ma da tenersi non troppo presto. Ecco perché parla oggi di "governo di legislatura" fino al 2018 (quando Berlusconi avrà ottanta anni). Ma forse gli basterà anche il 2017 o il 2016 se la sorte arriderà al suo governo. Prima, sarebbe in ogni caso un rischio. 

(II)  Oggi il Presidente della Repubblica ha accettato le dimissioni di Letta e ha dato subito  avvio alle consultazioni per la formazione del nuovo governo. 
Il Parlamento viene quindi escluso da questo passaggio: non ci sarà una discussione  parlamentare sul cambio di governo ma solo la discussione sulla fiducia a quello nuovo - il vecchio già irrimediabilmente seppellito all'insaputa del Parlamento.   
Non è la prima volta che ciò accade, ma la circostanza è fortemente discutibile. L'Italia è una Repubblica parlamentare ed il Parlamento è il cuore della nostra democrazia. Il Parlamento conosce un governo Letta al quale, l'ultima volta che è stato chiamato ad esprimersi, ha confermato la propria fiducia che, costituzionalmente, legittima l'esecutivo.  Fra qualche giorno lo stesso Parlamento verrà convocato ed ascolterà un certo Dottor Matteo Renzi - già in carica come capo del governo poiché a quel momento egli avrà già giurato nelle mani del Capo dello Stato - che gli chiederà la fiducia spiegando come intende governare fino al 2018. I parlamentari dovrebbero alzarsi in piedi e chiedere ad alta voce: "Renzi, chi? Non è Letta il Presidente del Consiglio al quale abbiamo dato la nostra fiducia ed al quale non l'abbiamo mai revocata?". Ma non lo faranno.
L'inopportunità costituzionale del mancato passaggio in Parlamento in questo caso è ancor più marcata. Letta non si è dimesso per una motivazione personale o extra-parlamentare, ma per la più parlamentare delle ragioni: il venir meno del sostegno di una parte decisiva della sua maggioranza parlamentare. Ieri la direzione del PD ha tolto la fiducia al governo Letta: questo è il senso di ciò che è accaduto. In una sede di partito - sede privata - si può ben decidere cosa dovranno fare - peraltro senza vincolo di mandato: art. 67 Cost. - i deputati e i senatori del partito stesso. Ma poi quella cosa deve essere fatta e compiuta là dove è previsto che si faccia e che si compia. La fiducia al Governo si dà e si toglie in Parlamento. La fiducia non è mancata su un singolo provvedimento - nel qual caso la motivazione starebbe nel dissenso su quel provvedimento e sarebbe emersa dal relativo dibattito - ma per una valutazione complessiva dell'opera del governo e del suo premier. Di ciò la Repubblica non può limitarsi a sentirne parlare in TV da un incontro privato indetto in un salotto di casa o nella sala giochi di un circolo ricreativo. La Repubblica, della valutazione complessiva del suo governo ne parla in Parlamento, il quale si chiama così proprio perché è lì che si parla della res publica e quindi anche del suo governo.
I cittadini, cui appartiene la sovranità (art. 1 Cost.), prenderanno  amaramente atto che la democrazia si è talmente evoluta che la "res publica" viene ormai trattata e decisa nella dimora privata di un'associazione, denominata PD, che rappresenta tra il 25 ed il 30% dei cittadini elettori. E gli altri? E le istituzioni, che rappresentano tutti? 

(III) A ben vedere, però, tutte le nostre analisi sul defenestramento di Letta faranno probabilmente scompisciare dalle risate chi sa come sono andate veramente le cose. Le nostre acute analisi portano probabilmente a soluzioni sensate sul piano teorico, ma completamente fuori bersaglio. Visti dall'esterno appariamo sicuramente ridicoli mentre combattiamo tra di noi con furibonda indignazione con le armi dialettiche forniteci regolarmente ogni mattina dai contrapposti "mattinali" ("Complotto!"; "La nipote di Mubarak!" - questa povera donna egiziana, quella vera, è da tempo in cura per fastidiosi e continui acufeni ed i medici non potranno mai scoprirne il motivo, non essendo clinico e risiedendo esso all'estero). Siamo ormai incapaci, infatti, di elaborare in proprio armi più efficaci ed intelligenti anche a causa del mancato esercizio.
Certi di questa nostra impossibilità di sapere come vanno veramente le cose che ci riguardano, potremmo però provare a domandarci se è un caso che questo passaggio avvenga in concomitanza con le rivelazioni di uno strano giornalista americano - che mettono casualmente in difficoltà l'anziano e da poco rieletto Presidente della Repubblica - e con la ricomparsa in pubblico, praticamente quotidiana, del prof. Romano Prodi, che proprio le suddette rivelazioni ci ricordano essere in relazione stretta e solidale con Monti, Bazoli e De Benedetti e quindi, attraverso di loro,  con la grande finanza internazionale, la quale probabilmente - pensando amorevolmente a noi - ha deciso di cambiare nuovamente i cavalli per l'Italia.

martedì 4 febbraio 2014

Applicazioni minime del principio di reciprocità

Chi riesca ad assistere all'attuale dibattito politico - oh, che parola grossa - con un po' di disincanto “bipartisan” può riuscire anche a trovarvi aspetti istruttivi e non solo ad indignarsi.
Un paio di episodi hanno visto come protagonisti assai discutibili i rappresentati del Movimento 5 Stelle.
Il primo è quello dello sciagurato epiteto rivolto da uno di loro ad un gruppo di deputate del PD.
“Insulto sessista” è stata la sdegnate reazione delle malcapitate e dell'area politica della quale sono espressione.
Curiosamente, si è trattato dello stesso termine letterale usato qualche anno fa nei confronti di una deputata della parte opposta, avvenente ex show girl: a quell'insulto sessista, alcune di quelle deputate, che oggi hanno motivo di sentirsi gravemente offese e di protestare vibratamente contro l'autore dell'osceno apprezzamento chiedendone la giusta punizione anche in sede penale, non reagirono manifestando solidarietà alla donna-collega: reagirono sghignazzando. Su quell'insulto sessista ci hanno poi vissuto e guadagnato per anni diversi nostri comici televisivi. Oggi per fortuna la reazione pare diversa ed è una reazione di condanna. Nessun comico si è finora azzardato a fare dell'ironia. Speriamo che sia il segno di un mutamento di atteggiamento e non la conferma di quella discriminazione, al limite del razzismo, che il “pensiero unico dominante” è abituato a praticare sotto il nostro cielo, per la quale si può offendere l'avversario e riderne, ma se offendono noi allora è un insulto inammissibile che deve esser condannato con sdegno.
Un altro episodio interessante è quello della querelle insorta tra una conduttrice televisiva ed un esponente del M5S, al quale l'ineffabile signora ha chiesto amabilmente conto del padre “fascista”. In risposta, si è sentita chiedere come si sentisse ad essere la moglie del figlio di un assassino, dato che per l'appunto il suocero della stessa, già esponente di un gruppo armato estremista, ha da poco finito di scontare una lunga pena detentiva per l'assassinio del commissario Calabresi. Un condannato con sentenza passata in giudicato ed anche scontata. Un “pregiudicato” a tutti gli effetti.
I due episodi poco edificanti che hanno visto in azione i rappresentanti del M5S segnano la conferma del livello infimo del dibattito, che dovrebbe essere “politico” se nel nostro Paese fosse sopravvissuta qualche traccia della politica.

Tuttavia possiamo scorgervi anche una valenza positiva: quella di aver fatto sentire ad alcuni sulla propria carne quale sia l'effetto bruciante degli insulti e delle offese, quelle stesse che con superficiale irrisione si è abituati a rivolgere agli altri pensando di esserne al riparo per grazia ricevuta.