venerdì 30 dicembre 2011

Il vaso di coccio e l'art. 18 dello Statuto dei Lavoratori

Ogni volta che in Italia si interviene sulle pensioni, allontanando progressivamente l'età che ne dà diritto, torna invariabilmente il tema della modifica dell'art 18 dello Statuto dei lavoratori, il quale prescrive - per le aziende che occupino più di quindici dipendenti -  la reintegra in servizio del lavoratore licenziato senza giusta causa o giustificato motivo. E' questo il cosiddetto regime di "stabilità reale del posto di lavoro": il datore che licenzia illegittimamente non può sperare di cavarsela con un semplice risarcimento del danno, ma - oltre a questo - deve anche riassumere il lavoratore e ripristinare il rapporto come se questo mai si fosse interrotto. A seguito della recente riforma governativa delle pensioni, il tema dell'art 18 è tornato, puntuale, alla ribalta, anche se il ministro Fornero, negando intenti abrogativi, ha precisato che i riferimenti che lei stessa vi aveva fatto volevano solo stimolare una discussione sull'argomento. Il nesso tra l'incremento dell'età pensionabile e la revisione restrittiva, se non abrogativa, dell'art. 18  c'è di sicuro. Basti pensare che ormai da decenni le aziende cercano di liberarsi dei dipendenti più anziani ricorrendo a varie forme di prepensionamento il cui onere, per le stesse aziende,  è direttamente proporzionale agli anni che mancano al lavoratore per accedere alla pensione INPS. Finora, in qualche modo, si è riusciti a salvaguardare - sempre più a fatica - la garanzia per il lavoratore di una saldatura, senza soluzione di continuità, tra vita lavorativa e pensione, e quindi tra stipendio e assegno INPS. Con l'età pensionabile che andrà a collocarsi sui sessantasette anni, le aziende che vogliono liberarsi di lavoratori cinquantacinquenni come faranno ?  Le aziende vogliono mandare a casa prima, l'INPS accoglierà molto dopo. La saldatura "stipendio/pensione" secondo alcuni dovrà saltare, ma come fare, se l'art. 18 impedisce di licenziare se non in presenza di una giusta causa o di un giustificato motivo ? Ecco svelato l'arcano. Tra le aziende e l'INPS c'è un vaso di coccio, dentro il quale c'è un lavoratore che, grazie all'eliminazione o all'attenuazione dell'art. 18, rischierà, in prospettiva, di restare senza lavoro, e quindi senza stipendio, mentre la pensione arriverà solo diversi anni dopo. E nel frattempo si dovrà arrangiare.   
E' vero che ormai, a distanza di quarantuno anni dalla promulgazione dello Statuto dei lavoratori (21 maggio 1970), lo scenario è purtroppo mutato e le aziende italiane, poco competitive, perdono segmenti di mercato e riducono quindi il proprio fabbisogno di manodopera, in un contesto nel quale il dato  drammatico dei cinquantenni rimasti senza occupazione, e senza prospettiva di trovarne una nuova data l'età, è superato solo da quello delle giovani generazioni che al mondo del lavoro non riescono ad accedere per niente. Tuttavia, per gli stati di crisi aziendale, sono previste procedure ad hoc che consentono di alleggerirsi di personale, così che l'art. 18, in questi casi, non costituisce alcun ostacolo. L'art. 18 quindi continua ancora oggi, dopo oltre quattro decenni, a svolgere egregiamente la propria funzione di civiltà: quella di mettere il lavoratore al riparo di licenziamenti dettati da discriminazioni di varia natura. Anzi, parrebbe necessario estenderne la tutela anche alle aziende che occupano fino a quindici dipendenti, sia per eliminare una situazione di ingiustificata diseguaglianza normativa, sia per superare quel blocco che induce molte aziende a far di tutto pur di non superare quel limite e mantenere la libertà di licenziamento (rinunciando anche ad assumere qualche giovane in più, pur di  non oltrepassare la soglia).   
Il problema che si vorrebbe risolvere è invece diverso: con l'incremento dell'età pensionabile,  da un lato le aziende si trovano ad avere dipendenti sempre più in là con l'età i quali, anche per la stessa anzianità di servizio, godono di un trattamento retributivo elevato, mentre il loro rendimento, in molti settori, passati i sessanta-sessantadue anni, tende oggettivamente a decrescere ed in qualche caso anche ad essere meno affidabile. Dal lato opposto, il ritardo dell'uscita dal mondo del lavoro blocca il ricambio e quindi l'accesso per i giovani alla prima occupazione. Ma questo problema non può trovare la soluzione nell'eliminazione dell'art. 18, che ha una diversa finalità - quella antidiscriminatoria - e che ha destinatari, di volta in volta, individuali. Qui le soluzioni devono essere necessariamente diverse ed avere natura collettiva. Un'ipotesi da approfondire potrebbe essere quella quella di prevedere fasi d'ingresso (per i giovani verso il primo impiego) e fasi di uscita (per gli anziani, in attesa dell'età della pensione) "alleggerite", e cioè con orari e salari ridotti, così che le aziende - accettando peraltro esse stesse una parte del sacrificio - possano assumere qualche giovane in più anche prima dell'uscita dell'anziano, entrambi i quali godrebbero per qualche anno di un trattamento economico ridotto rispetto alle normali paghe tabellari, e con una prestazione lavorativa anch'essa temporalmente ridotta. I giovani avrebbero comunque un reddito di partenza e soprattutto riuscirebbero ad accedere  stabilmente e non in maniera precaria  al mondo del lavoro, ed i vecchi - che a quell'età hanno normalmente anche minori bisogni - potrebbero contare su un decoroso reddito di accompagnamento verso la pensione.

Integrazione del 17 gennaio 2012

A seguito della pubblicazione del 16.1.2012 su "Italians" (Corriere della Sera - Corriere.it) di una sintesi del presente intervento, vi sono stati alcuni commenti sul suddetto Blog che rendono opportuna una integrazione.
L'art. 18 dello Statuto dei lavoratori del 1970 intervenne sulla pregressa disciplina dei licenziamenti individuali del 1966 rafforzando la tutela attraverso la previsione della reintegra in servizio del lavoratore la cui risoluzione del rapporto di lavoro fosse stata intimata senza una giusta causa o senza un giustificato motivo. Con questa norma, quindi, il datore di lavoro non può più liberarsi di un dipendente sostenendo solo il rischio di dovergli un risarcimento pecuniario nel caso in cui un giudice dichiari illegittimo quel licenziamento per l'assenza di una giusta causa (es: cassiere che ruba) o di un giustificato motivo (es. dipendente che si rivela palesemente inadatto alla mansione e non utlizzabile in altre della sua categoria). 
Con questa norma, infatti, un lavoratore licenziato per motivazioni diverse da quelle previste dalla legge (ad esempio: per le sue idee politiche, per una particolare antipatia sorta col datore di lavoro ecc., o perchè il datore di lavoro vuol diminuire il numero dei propri dipendenti, e ne sceglie uno secondo la sua discrezione) deve - se così decide il giudice che sia stato adìto - essere reintegrato in servizio col ripristino pieno del rapporto di lavoro, che si intende a tutti gli effetti come mai interrotto (l'art. 18 prevede inoltre, in aggiunta, un onere pecuniario risarcitorio a carico del datore di lavoro).
Questa norma, di per sè - e, certo, a seconda delle opinioni - può essere ritenuta una norma di civiltà, poichè sottrae il lavoratore all'arbitrio del suo datore di lavoro, e - certo - vincola pesantemente quest'ultimo a tenere in vita il rapporto.
Se l'obbligo di reintegra dell'art. 18 viene abolito, il datore di lavoro - sia pure pagando un prezzo pecuniario - ha la facoltà di cacciare in ogni momento un suo dipendente: se ne libera definitivamente.  Questa possibilità - in assenza di giusta causa o di giustificato motivo soggettivo -  può applicarsi, in teoria, sia a situazioni che la fanno considerare giusta e positiva, sia a situazioni che sono il frutto di atteggiamenti ingiusti del datore di lavoro.
Nel primo caso, può certo accadere che il datore di lavoro ritenga necessario, per la propria organizzazione aziendale, ridurre la forza lavoro. Nel secondo caso, si può pensare ad un licenziamento che sia la ritorsione per contrasti sorti col lavoratore. Nella prima situazione, il datore di lavoro merita una tutela, nel secondo no. Ma per la prima situazione, la tutela deve risiedere in una norma di natura collettiva che salvaguardi comunque il lavoratore dal rischio di essere "prescelto" per un licenziamento sì oggettivamente necessario, ma di esservi "prescelto" in base a valutazioni soggettive e discriminatorie. Occorrono quindi (ed in molti settori sono da tempo previste) procedure di garanzia che fissino criteri oggettivi per l'individuazione dei licenziandi.
Se si adotta, come strumento per soddisfare la prima esigenza sopra esemplificata (quella "giusta") l'abolizione dell'obbligo di reintegra ora previsto dall'art. 18, si crea invece una situazione di arbitrio nella quale il lavoratore è alla totale mercè dell'imprenditore, assoggettamento che, a seconda delle opinioni, può essere ritenuto iniquo anche se si è in presenza di una reale ed oggettiva necessità di riduzione del personale, necessità per la quale, come detto, si deve ricorrere invece a strumenti di portata collettiva "ad hoc". 
Ora si provi ad applicare quanto sopra detto alla situazione già in atto da tempo e che i recenti provvedimenti pensionistici acuiscono in modo molto rilevante: i lavoratori dipendenti andranno in pensione molto più tardi e quindi le aziende dovranno tenerli in servizio molto più a lungo. Dovranno cioè tenere in servizio lavoratori anziani (fino a 66-67 anni) che in molti settori cominciano ad essere poco produttivi ma che, proprio in virtù dell'anzianità, hanno diritto a livelli retributivi più elevati. Anche in assenza di necessità produttive che rendano necessario ridurre la forza lavoro, le aziende - anche a fronte della pressione in entrata dei giovani in attesa di prima occupazione - vedranno la convenienza di mandare a casa il costoso sessantenne ed assumere un giovane da inserire ai primi e più bassi livelli retributivi. Se viene abolito l'obbligo di reintegra dell'art. 18, il gioco e fatto: si licenzia "immotivatamente" l'anziano, se questi ricorre al giudice gli si pagherà volentieri il risarcimento (conviene: l'anziano lo si sarebbe dovuto pagare - caro - magari ancora per dieci anni o più), e si assumerà un giovane che  costa la metà (che, senza art. 18, quando ci parrà potremo mandare anch'egli a casa).
Per questo, può sorgere il sospetto che non sia un caso se le proposte di "revisione" (eufemisticamente) dell'art. 18 riemergono tutte le volte in cui si protrae l'età pensionabile e quindi si protrae anche il tempo per il quale le aziende hanno da tenere in servizio (e da retribuire a costi crescenti proprio in virtù dell'anzianità) i lavoratori "anziani".  Questi ultimi, se venisse meno la tutela reintegratoria dell'art. 18, correrebbero il rischio di essere licenziati a 55-56 anni, se non prima, di avere diritto ad un risarcimento che magari potrà coprire al massimo il primo anno di mancato lavoro, e di dover poi restare dieci anni senza lavoro e senza pensione, dato che a quell'età è praticamente impossibile farsi riassumere da qualche altra azienda. 
Pertanto, può ritenersi (certo, a seconda delle opinioni; a tale riguardo si rimanda al "sottotitolo" di questo blog ) che la giusta tutela del datore di lavoro che voglia legittimamente adeguare la propria forza lavoro, ed il suo costo, alle variabili produttive e di sua giusta remunerazione, non possa passare attraverso la via, certo per lui facile e sbrigativa, dell'abolizione dell'art. 18 (che ha ben altre ed irrinunciabili finalità), ma debba trovare soddisfazione in appropriate discipline collettive ad hoc che tutelino anche il singolo lavoratore.
Una volta trovate queste più pertinenti soluzioni, potrebbe risultare ragionevole eliminare la differenziazione di dubbia legittimità costituzionale che esclude dalla tutela dell'art. 18 le aziende che occupano fino a 15 dipendenti: anche in questi casi il lavoratore ha diritto a non rischiare di essere licenziato perchè divenuto  "antipatico" al datore di lavoro, il quale, d'altra parte, se ha necessità di ridurre la forza lavoro, ricorrerà alle forme alle quali ricorre l'imprenditore che occupi più di quindici dipendenti.
In questo caso, tra l'altro, verrà meno il motivo che oggi artificiosamente limita a 15 l'organico di tante piccole imprese che, se non fosse anche per quel limite, magari assumerebbero qualche giovane in più.      

mercoledì 7 dicembre 2011

Politica e tecnica

In questa fase particolare e, purtroppo, forse irripetibile assistiamo a spettacoli come Ballarò dove competenti  ministri tecnici parlano assennatamente, con equilibrio e competenza, delle materie loro assegnate, ma sono al cospetto di un uditorio da curva sud e curva nord, che capisce solo quel che vuol capire (ed è scelto probabilmente per questo) e che è lì presente per fare il tifo per esponenti  di varia catalogazione i quali, come talora lo stesso conduttore, mostrano difficoltà intellettuale ad abbandonare la deplorevole consuetudine dell'irrisione verso le opinioni dell'avversario, se non proprio verso la sua persona, della violenza verbale, della partigianeria palese o strisciante, senza essere in grado - ciò è ora reso più evidente dal confronto diretto con chi le “cose” le conosce davvero -  di affrontare seriamente i problemi che vengono dibattuti (perché li conoscono poco), preoccupati come sono, soltanto, di portare acqua propagandistica ai loro ormai fatiscenti mulini, materia nella quale essi sono invece ferratissimi.
Sarebbe auspicabile che, in una fase di “governo tecnico” come questa, si passasse anche al “talk show tecnico”, dove esponenti del governo e qualificati esperti di orientamenti politici e sociali diversi potessero discutere dei vari argomenti esponendo pacatamente, con equilibrio, rispetto e competenza, le proprie opinioni e le proprie proposte in merito ai problemi della collettività, pronto ciascuno a far tesoro dell'idea utile dell'altro.
Ma ... questo sarebbe un profilo tecnico ? No, forse proprio questa è la politica. La politica che abbiamo perso e che dobbiamo ritrovare.

lunedì 5 dicembre 2011

Tecnica e passione, politica e imperturbabilità

Domenica sera, nel corso della conferenza stampa del Governo Monti in merito alle misure urgenti per il risanamento, il Ministro del Welfare, Elsa Fornero, ad un certo punto - quando stava parlando della deindicizzazione delle pensioni - si è interrotta  in preda ad un evidente turbamento per quello che stava dicendo, senza riuscire a pronunciare la parola "sacrifici".
Se un ministro “tecnico” si commuove in diretta TV mentre espone le dure misure che deve adottare, può sorgere spontanea la domanda se non si sia di fronte ad un ribaltamento di ciò che normalmente ci si dovrebbe attendere. I “tecnici” dovrebbero essere freddi ed asettici ed i politici, invece, caldi e passionali. Peraltro, contrariamente a questo stereotipo quando, in passato, ministri politici hanno avuto da informarci in merito a misure sgradevoli, non si sono mai commossi.
Il turbamento del ministro Fornero quando espone i sacrifici pensionistici che ci attendono denota una sensibilità sociale ed una passione che confortano, soprattutto quando ciò si abbina ad una chiarezza e ad una intensità di esposizione che nascono evidentemente da una invidiabile capacità intellettiva e da una profonda conoscenza della materia. E' un segnale di grande speranza, quello che ci è stato involontariamente trasmesso nel corso della conferenza stampa di domenica sera.

martedì 22 novembre 2011

"Il mercante di libri maledetti" di Marcello Simoni - Newton Compton Editori

La lettura di questo romanzo di Simoni è un esercizio – impegnativo, molto impegnativo - che deve essere consigliato a tutti. Infatti si tratta di un passaggio fondamentale per convincersi definitivamente di come questo filone di romanzi storico-esoterico-pseudoreligiosi deve esser rifuggito come la peste. Se non si legge “Il mercante dei libri maledetti” si può correre il rischio di cadere di nuovo in tentazione. E' lo stesso motivo per il quale conviene leggere “Il cimitero di Praga”: una volta completata l'impresa, possiamo esser certi che non cadremo più nella tentazione di prelevare da uno scaffale di una libreria un romanzo di Umberto Eco. Tornando a Simoni, che ci dicono ex archeologo, laureato in lettere e attualmente bibliotecario (ecco perché), si è in presenza di ottantotto capitoli per circa 350 pagine (peraltro al prezzo giustamente modico di Euro 9,90) che rendono incerto onore al tempo che il lettore, per seguire le avventure del protagonista, deve sottrarre ad altre occupazioni ed interessi non meno stimolanti ed attraenti di queste ultime (ad esempio, andare a fare la spesa, accompagnare la moglie dal parrucchiere, farsi uno shampoo, ecc.).
Qui si tratta di tale Ignazio da Toledo, mercante, che in una piovosa giornata del 1218 arriva ad una abbazia dell'Italia nordorientale in compagnia di un giovane aiutante e viene accolto dall'abate, che l'attendeva. Compaiono subito un cellario ed un inserviente, uno di quei servi (c'è  qualche altro esempio, nella letteratura) ai quali vengono affidate le faccende manuali e meno gradite di un monastero. Anche se può sorprendere, questo inserviente – Hulco – è un po' deforme e si esprime in un vernacolo incomprensibile. Il mercante Ignazio deve mettersi alla ricerca di un libro misterioso, l' Uter Ventorum, raccolta di sapienti principi orientali che mettono l'uomo in relazione con gli angeli. La ricerca si snoda per vari paesi, tra l'Italia, la Francia e la Spagna pirenaica (come richiede questo genere di storie, i Pirenei non possono mancare, come non manca la citazione del cammino di Santiago). Sono molte le peripezie che deve affrontare Ignazio, col suo fido aiutante al quale si è subito aggiunto il giovane monacello Uberto, peripezie legate al fatto che i tre sono inseguiti dagli adepti di una setta chiamata Saint-Vehme, anch'essa sulle orme dell'Uter Ventorum.
I brevi capitoli sono scritti in maniera chiara e lineare e la lettura è, fortunatamente, sciolta. Il linguaggio messo in bocca ai personaggi apre squarci imprevisti sul lessico dell'epoca: ad esempio, il giovane attendente dei cavalieri templari, che hanno appena salvato Ignazio e i suoi compagni dall'ennesimo attacco della Saint-Vehme, risponde ai ringraziamenti con un laconico “Dovere” che parrebbe più appropriato sulla bocca di un volontario dell'odierna Croce Rossa che non su quella di un cavaliere del Tempio di Gerusalemme, anche se le insegne sono simili. Nello stesso senso, non era forse molto in uso nel 1218 l'espressione “giungere proprio a fagiuolo” messa in bocca al domenicano Scipio Lazarus (pag. 143), riferimento peraltro storicamente non del tutto improbabile dato che, anche prima della scoperta dell'America (solo con la quale, come noto, si ebbe la diffusione in Europa dell'odierno gustoso legume) nel vecchio mondo era in uso (anche se non larghissimo) un altro tipo simile di leguminacea, alla quale nel seicento fu attribuita la denominazione botanica di “fagiolo Vigna”. Sì, il lettore si aspetta che prima o poi qualcuno, nel romanzo, profferisca un “OK”, ma ciò – possiamo rassicurare – non accade.
Terminata la lettura, continuando a girar pagina nella speranza che il romanzo non sia già finito (ed invece lo è), ci si imbatte nella quarta di copertina, già vista al momento dell'acquisto e che forse ha dato la spinta finale alla saggia decisione di non lasciarsi scappare le avventure di Ignazio da Toledo. Vi si legge infatti: “Enigmatico come Il nome della rosa”; “Avvincente come I pilastri della terra” ed il lettore, a quel punto, può essere indotto a cercare l'indirizzo di una delle tante associazioni di difesa dei consumatori alla quale proporre l'avvio di una “class action” risarcitoria.
Romanzo fondamentale ed imperdibile, Il mercante di libri maledetti, che occorre assolutamente leggere per i motivi indicati all'inizio.

mercoledì 16 novembre 2011

Dalle coesioni territoriali alle coesioni politiche

Sta finalmente vedendo la luce il nuovo Governo ed oggi se ne è conosciuta la composizione, che pare molto rassicurante. Peraltro, il nuovo ministero per la Coesione Territoriale, del quale, in tempi di tagli e sacrifici, non si sentiva urgente bisogno, pare nato al solo scopo di scavare un fossato tra la Lega ed il PDL in vista delle prossime elezioni. Un ministero così denominato è l'esatto opposto del preesistente Ministero per il Federalismo. Poichè quest'ultimo niente ha fatto, non c'era bisogno di un ministero che disfacesse. Fatto sta che il PDL che vota a favore di un Governo il quale si propone di rafforzare la Coesione Territoriale, è un partito che ripudia il federalismo auspicato dal partito di Bossi, e quindi addio alleanza anche a livello locale. A prescindere dall'indiscutibile valore intrinseco della coesione territoriale, fa venire però un po' di tristezza immaginare il Prof. Monti costretto, per la ragion di Stato, a dar retta a chi, per ragion di botteghe (probabilmente un tempo oscure), ha imposto questa trovata ed ora si starà fregando le mani orgoglioso della furberia degna delle scaramucce politiche del secolo scorso. Chissà a chi sarà venuta quest'idea. Io penso che sia uno, o una, coi baffi. Peraltro, si spera veramente che la politica italiana stia per prendere una strada nuova e diversa, una strada che le vecchie volpi stentano ad individuare; quindi esse possono scioccamente ancora gioire per i conigli che estraggono da cilindri sempre più logori e rattoppati. A questi politici del novecento sfugge che qualcosa si sta muovendo nella morta gora della politica italiana. Proprio a partire dall'attuale emergenza, può infatti accadere che l'ala più ragionevole e moderata del PDL lasci al loro destino i talebani berlusconiani e formi un proprio raggruppamento; che altrettanto faccia l'ala moderata e cattolica del PD; che questi due tronconi di fuoriusciti trovino un'alleanza con l'attuale terzo polo. A seconda dell'entità dei due smottamenti dal centrodestra e dal centrosinistra, potrebbe formarsi al centro un polo omogeneo, nucleo di ulteriore attrazione di consensi dei cittadini alla prossime elezioni, magari avendo come candidato premier Monti. Questa nuova alleanza potrebbe avere ambizioni maggioritarie, lasciando all'opposizione sul lato destro la Lega e gli ultimi berlusconiani puri e duri,  e, su quello sinistro, un PD (amputato dell'ala moderata) in compagnia del gatto e della volpe, vale a dire Vendola e Di Pietro. Perchè questo possa accadere è necessario che il Governo Monti ottenga i risultati sperati e che resti un po' di tempo a disposizione, prima delle elezioni, perchè le scomposizioni e ricomposizioni possano avvenire.
E' vero che anche noi cittadini siamo, ancora, tutti elettori del novecento, come i politici. Ma normalmente la classe politica dovrebbe essere più avanti dell'elettorato e dovrebbe guidarlo. Oggi in Italia non pare proprio essere così. Noi elettori nati nel XX secolo dobbiamo guardare al XXI e per far ciò dobbiamo cercare di liberarci di politici che, nella loro pigrizia mentale, sono ancora attaccati alle ideologie del XIX secolo.

giovedì 10 novembre 2011

I pericoli nella transizione

In questi ultimi tempi, può sorgere il sospetto che i “mercati internazionali” abbiano perso fiducia nel nostro Paese non tanto perché guardano al nostro debito pubblico, al suo rapporto col PIL, alla nostra mancata crescita, all'inettitudine di un governo che non ha mai avuto voglia di governare ed è stato lì solo per togliere il posto ad altri (che avrebbero fatto lo stesso, beninteso). No, il sospetto è che la crisi di fiducia nel nostro Paese derivi dal fatto che ogni mattina i “mercati internazionali”, da qualche tempo, per prima cosa, appena fatta colazione, corrano a leggere i vari blog italiani dove noi privati cittadini parliamo di politica.  Ed è lì – nei nostri interventi – che essi trovano motivo per fare pessimistiche previsioni sul nostro futuro. Ora, lasciando da parte l'evidente paradosso, le discussioni che si fanno in rete sono quasi sempre di mero “schieramento”: chi è stato più bravo e chi più cattivo, chi non vorremmo vedere più in televisione (i nostri nemici, ovviamente) e quali politici ci sono più simpatici (quelli della nostra parte, naturalmente: gli altri - solo gli altri -  sono notoriamente dei lestofanti), con chi si deve alleare e con chi non si deve alleare il tale partito per “vincere” (non certo per fare del bene al Paese) ecc. ecc. In un momento come questo, non stiamo discutendo sulle soluzioni da adottare per cercare di risollevarci: noi litighiamo su quale sia il modo migliore perché lo schieramento avverso a quello al quale apparteniamo, perda. Questa sembra essere la nostra unica preoccupazione. Siamo ancora preda delle nostre vecchie appartenenze ideali, delle quali ormai - e non vogliamo capirlo – come della rosa resta solo il nome (e nemmeno più l'Eco), ed una vaga, inconfessata nostalgia priva ormai di ogni speranza.
Oggi si apre uno spiraglio positivo con la notizia di un  probabile incarico a Mario Monti per un governo serio e autorevole nei suoi componenti. E' la strada del buon senso e l'unica che ci è rimasta. Tuttavia l’ottimismo per uno sviluppo di questo tipo viene purtroppo attenuato alla luce di quel che hanno fatto capire i “soliti noti starnazzanti” a Porta a Porta di ieri sera: destra e sinistra sanno che il nuovo governo dovrà assumere decisioni impopolari, e loro – più che al bene del Paese – pensano soprattutto al bene dei loro partiti alle prossime elezioni. C’è quindi da temere che sia gli uni sia gli altri, dopo aver accettato di buon grado un Governo Monti, sulle signole misure da adottare vorranno addossare all’avversario la responsabilità delle decisioni più pesanti, paralizzando l’azione risanatrice. Questo sarà il problema.

martedì 8 novembre 2011

Il Faust di Sokurov

Lo spettatore di normale cultura deve sapere in anticipo che, all'uscita della sala di proiezione, dovrà constatare di non averci capito molto di questo film che ha vinto il Leone d'oro all'ultima Mostra di Venezia. Tuttavia egli continuerà a ripensare a lungo alla sequenza delle immagini, interrogandosi sul loro significato. Quelle immagini, nella loro ammorbante tonalità che sfuma sul grigio-marrone-verdognolo, non le dimenticherà facilmente. Il Faust di Sukorov è, infatti, un film “indimenticabile”, come indimenticabile è l'atmosfera che si respira, gli odori che si avvertono. Si avvertono - l'atmosfera e gli odori - non in senso figurato: incredibilmente, pare di esserci in mezzo. Il fetore, la fatiscenza, il miserevole polverume scenico, il ciarpame putrescente nel quale avanzano i personaggi, facendosi strada a fatica tra oggetti impensati, fuori uso da secoli e disordinatamente accatastati, avvolgono lo spettatore fin dall'inizio e lo accompagnano per le due ore ed un quarto della proiezione.
Il collegamento con l'opera goethiana è praticamente inesistente, se si eccettua il nome del protagonista ed il suo scellerato patto sottoscritto col sangue. Il dottor Faust è un povero disperato, acculturato ma buono a nulla, alla ricerca di un senso da dare alla propria vita e soprattuto alla ricerca di un modo per vivere (di un modo materiale: alla ricerca, cioè, dei quattrini che non ha per tirare avanti) e sempre sensibile al fascino femminile che troverà – irresistibile - in Margareta, splendida bellezza slava dalla bocca come un bocciòlo di rosa, con la quale troverà la morte. Dopo la quale, ovviamente, l'avventura continua in compagnia del diavolo col quale ha fatto coppia fissa, in un rapporto nel quale è Mefistofele a dipendere da Faust: il diavolo, nel film di Sokurov, è per l'appunto un povero diavolo piagnucoloso, alla fine sommerso da una montagna di detriti e di pietre dal Dottor Faust che così lo rimuove e poi si allontana, in un crepuscolare scenario apocalittico, e bellissimo, verso un immenso ghiacciaio - anch'esso polveroso - che risale la montagna.
Il Faust di Goethe è un riferimento lontano: il film di Sokurov sembra essenzialmente una ben riuscita esibizione accademica di arte cinematografica, dove è da apprezzare soprattutto la forma, ridotta a mero pretesto strumentale la sostanza.  
Un film da vedere, sì, ma non necessariamente da capire. O meglio: un film da vedere una seconda volta, senza farsi cogliere di sorpresa come la prima.

Virtù civiche

Negli ultimi giorni abbiamo assistito ad interventi di privati cittadini che hanno proposto, mettendole in pratica per quanto li riguardava, varie iniziative allo scopo di aiutare il Paese in questo particolare momento. Qualcuno (vedi anche - sorprendentemente -  Severgnini su Italians di Corriere.it di oggi 8 novembre)  ha preso le distanze da questi pronunciamenti nel timore che il frutto di tale esercizio virtuoso, andando a rendere un beneficio al Paese, potrebbe costituire motivo per il governo attuale di accaparrarsi meriti che certo non ha.
Posizioni di questo genere lasciano perplessi. Si dovrebbe invece considerare che l’emergere di inattese virtù civiche debba dare speranza. Se i cittadini possono fare qualcosa in proprio per aiutare il proprio Paese (e certo non basterà), è encomiabile che lo facciano, anzi tutti dovremmo – nei rispettivi limiti – cercare di renderci utili: sottoscriviamo i titoli di Stato, paghiamo le tasse, non lavoriamo a nero e non diamo lavoro a nero.
Per quanto riguarda il “pagare le tasse”, sarebbe necessario un esame di coscienza. Non basta pagare tutta l’IRPEF dovuta sugli emolumenti di lavoratori dipendenti, e vantarsi di questo (anche perchè non possiamo farne a meno: viene detratta alla fonte). Si è evasori, spesso totali, e si consente l’evasione altrui, anche quando non si esige la fattura del dentista, dell’idraulico, del decoratore, del muratore. In questi casi, si evade 210 perchè la fattura, se emessa, sarebbe stata di 1.000: se fosse stata di 1 milione avremmo evaso 210.000; cioè – non appena anche per il comune cittadino è possibile – spesso si evade tutto l’evadibile sui piccoli conti, e poi si accusano (giustamente, certo)  “i grandi evasori” dimenticando che in proporzione si sta facendo altrettanto e che quindi con tutta probabilità lo si farebbe – al 100% – anche se i conti fossero ben più alti, come appunto quelli dei “grandi evasori”. 
Non è condivisibile l’opinione  che, pur di mandare a casa Berlusconi (che tanto ci andrà comunque, forse domani), si debba evitare di aiutare il Paese, quando se ne hanno le possibilità, e che si debbano guardare con sospetto i cittadini che decidono di essere virtuosi.

lunedì 7 novembre 2011

Genova per noi ...

Fra le tante immagini del disastro in Liguria e in Toscana, forse anche troppe, e molte trasmesse con l'intento di fare spettacolo, una in particolare colpisce e commuove. A Genova, una signora in lacrime di fronte al suo negozio distrutto. Ma non piange per il suo, di negozi: col dito indica davanti a sé “... quel bar là di fronte ... di quel ragazzo ... aveva rifatto il banco nuovo il mese scorso, e l'acqua glielo ha portato via”.

giovedì 3 novembre 2011

sabato 29 ottobre 2011

"L'eredità di Eszter" di Sàndor Màrai - Ed. Gli Adelphi

Foto ripresa dal sito dell'Editore


Non so che cosa mi riservi ancora il Signore. Ma prima di morire voglio narrare la storia del giorno in cui Lajos venne per l'ultima volta a trovarmi e mi spogliò di tutti i miei beni”.

Il romanzo è stato scritto da Màrai nel 1939, quando egli  ancora si trovava a Budapest prima del suo definitivo abbandono dell'Ungheria che avverrà nel 1948, ed è stato pubblicato per la prima volta in Italia, da Adelphi, nel 1999. Come in altre opere di Màrai, l'azione è concentrata in poche ore, nelle quali si dipana la vivisezione dell'animo della protagonista (che qui parla in prima persona) con una fluidità di linguaggio ed una profondità di analisi che non cessa mai stupire e di incantare il lettore (vedi, su questo blog, 7 settembre 2011,  “Divorzio a Buda”). Eszter vive sola, ormai da anni, in compagnia della fida Nanu, nella villetta di famiglia. In gioventù, un grande amore, mai sviluppato. Lajos, il brillante, l'incantatore, il millantatore, l'inaffidabile, Lajos, portato in casa dal fratello della protagonista, che ne è amico ed anche affascinato, fa innamorare di sé la giovane Eszter, ma ne sposa – senza amarla – la sorella. Lajos è quel che è, un soggetto pericoloso, ammaliatore, insidioso, ladro, debitore insolvente e spergiuro, ma non lo fa per cattiveria, è la sua natura, lui non ci vede niente di malvagio. Quando Vilma, sorella di Eszter, muore Lajos se ne va assieme ai due figli, sparisce, ma nel frattempo ha portato via ad Eszter, oltre all'anima, anche tutto quanto di materiale poteva portar via, solo la casa si salva, perchè Llajos non può smontarla e portarsela dietro. Niente altro è restato ad Eszter, neppure la forza di accettare l'amore di fedeli conoscenti, che continuano devoti a starle vicini e ad aiutarla in silenzio. Passano gli anni, fin quando Eszter riceve un telegramma di Lajos: egli annuncia la sua visita, assieme a non meglio specificati “altri”, una corte dei miracoli che poi il lettore scoprirà. Eszter capisce subito tutto e sa come andrà a finire. Lo ha sempre saputo, così deve essere e lei non si opporrà. “Gli amori infelici non finiscono mai”. Mirabile il passo del colloquio  al crepuscolo, a quattr'occhi, quando Eszter mente a se stessa cercando di tener testa a Lajos, sapendo di non volerlo fare. Sa che è venuto il momento dell'ineludibile spoliazione finale ed Eszter l'accetta: è quello che deve accadere, e che quindi accada, pur nella consapevolezza del raggiro ultimo e definitivo.

"Ma il vento, quel vento di fine settembre, che fino ad allora si era aggirato di soppiatto intorno alla casa, aprì con violenza i battenti delle finestre, fece sventolare le tende e, come se portasse notizie da lontano, sfiorò e mosse ogni cosa nella stanza. Quindi spense la fiamma della candela. E' l'ultima cosa che rammento. Ricordo ancora vagamente che più tardi Nanu chiuse le finestre, e io mi addormentai.”

Il Big Bang di Renzi

Si è aperta a Firenze la Convention di Renzi, alla quale è stato dato il  nome, augurale,  di Big Bang. L'iniziativa si svolge nell'aperta e dichiarata ostilità del gruppo dirigente del PD, che ha giustamente molto da temere qualora le posizioni innovative comincino fare breccia nel partito.
Chi ha paura di Matteo Renzi ? Che domanda "loffia", come direbbe il meridionale  D'Alema, al quale probabilmente il vocabolo fiorentino (recentemente da lui usato in una dichiarazione per definire le posizioni del Sindaco di Firenze) è stato suggerito da qualcuno dei non pochi adepti che egli continua ad avere in Toscana, vocabolo che questi ultimi  non osano profferire direttamente e lo fanno lanciare da un pulpito più autorevole, ridendo nell'ombra per lo sberleffo all'odiato nemico. La domanda è loffia perchè la risposta è scontata. Hanno paura di Matteo Renzi quanti, nel PD, contavano di continuare pacificamente e senza scosse la loro già lunga carriera come accadeva negli ultimi anni, a loro cari, della prima repubblica, sebbene a Firenze  ciò sia accaduto anche fino a poco fa, prima che arrivasse il ciclone. Com'era comodo quel sistema: oggi tu vai lì e così io vado là; domani tu vai a Roma ed io faccio il sindaco; tu fai il sindaco e io allora faccio l'eurodeputato; non sono più assessore e allora vado a presiedere il consiglio comunale,  e così via, l'importante, però,  è che siamo sempre tra di "noi" (nel Sud, questo meccanismo ha dei nomi ben precisi, sebbene con strumenti d'attuazione più sbrigativi). L'importante è che non entri di mezzo qualcun altro a scombinare i nostri iter professionali, che vanno avanti per anzianità ed hanno per obbiettivo quello di arrivare sani e salvi alla pensione. Basta vedere la situazione di Firenze, dove il peggior nemico della Giunta Renzi è una parte ancora cospicua del PD: si tratta della  ritorsione della passata, grigia ed ignava nomenklatura, finalmente sbaragliata, che da trentanni soffocava mortalmente la città e che adesso sta finalmente soffocando essa stessa, ma ancora si agita - pericolosamente -  con le ultime, disperate  forze che le son rimaste.          

venerdì 21 ottobre 2011

Pensieri in campo di un giocatore immaginario di una squadra di calcio immaginaria

Ovvia, su. Che palle anche oggi. O che si comincia di già ? L'arbitro ha belle fischiato il calcio d'inizio. Di già? O porca miseria, o dacci i' tempo di rifiatare, no ? S'è appena finito di salire le scale degli spogliatoi. No, no ... ma icchè tu fai ? Che dai la palla a me ? E siamo in undici, siamo, 'un ci son mica altro che io ! Ovvia, la ributterò in avanti, qualcuno la piglierà. Ecco, ora io, la mi' giocata l'ho belle fatta, eh ... 'un seguitate a tirammi ni' mezzo ... vu' ci siete anche voi. Maremma, che cardo. Qui va a finire che fo una bella sudata. O come corrano questi qui di casa, in do' lo trovano tutto questo fiato, tutto questo ardore ? Sembran pagati, pe' correre. Che gli ha morsi la tarantola ? Ma che ce l'hanno con noi ? Icchè vogliano ? Uffa, che mazzo che ci tocca a facci, anche oggi. Ma quante manca alla fine ? Ah ... siamo al quindicesimo di' primo tempo. Calma ragazzi, che per arrivare a i' novantesimo l'è lu.... cribbio, s'è preso gol. Vai, ora tu gli vo' sentire questi tifosi di mer ... ah, 'un si po' dire ... ma ci siamo intesi. Ma icchè son venuti a rompere anche qui in trasferta, 'un gli basta scassarci in casa? Sì, sì, ho capito, caro mister. Su i' fondo, su i' fondo, pe' crossare. Sìe, o 'un lo so: pe' crossare vo fino in fondo laggiù ... te tu' vaneggi .. e c'è un poco, di qui per arrivare su i' fondo. O vacci te, a crossare di laggiù. Ovvia, meno male, mister, tu mi sostituisci. L'era l'ora, 'un ne potevo più. No ? Nooo ? 'Un tu levi me ? Ah, tu levi lui, poerino, 'i tu coccolino, sennò si sciupa, vero ? Va bene, e se si perde icchè vol dire. La palla l'è tonda, si vince e si perde. Gli è un risultato anche questo. Del resto icchè si po' fare di più. Guarda qui, son tutto fradicio mézzo. O ... ma che devo fare ogni cosa io, qui ? O allungatela al portiere la palla, quarche vorta, maremma inguastita, che gli è lì senza fa' nulla. Guardalo bellino, par dipinto. Essai, lui 'un si move, sai.    Ora voglio vedere le pagelle domani, che voto mi danno dopo una prestazione così. Oh, guarda ... quasi quasi si pareggiava. E poi dicano ... s'ha sfortuna, s'ha, altro che. Oh ... oh ... m'arriva la palla ... l'è arta ... o porca maremma impestata ... di testa ? ... Sìe, di testa ... pe' vedere se mi spettino tutto .. ma che le passate tutte a me, queste palle ? E siamo in undici, siamo in undici ... che devo fare tutto io, eh ? Io di testa 'un la piglio, se la va fori, pazienza. Figurati se ora metto a rischio la permanente, stasera c'è la Gessica ... che coscia la mi' Gessica... via ora gli è meglio che 'un ci pensi. In do' l'è ?  'Un la vedo in tribuna. Ah, sì, eccola lì, l'era chinata, ma ora la s'è rialzata. Icchè la fa ? Ah .. la si ritocca iì rossetto. Eh, che donna: la s'è messa accanto a i' presidente, per digli una parolina bona pe' i rinnovo di mi' contratto. Oh ..  a che punto siamo, m'ero distratto. Sette! O Sette! Che si perde sempre 0-1 ? Via, su, tempo per pareggiare ci s'ha. Calma, calma, ragazzi, 'un vi fate prendere dalla frenesia, ragioniamo prima di giocare. Se si corre troppo, si ragiona male, e poi si perde. Manca ancora tre minuti di recupero ... maremma indiavolata ... o quante la dura questa partita ? Gli avevano anche da inventare i recuperi ... tra una cosa e un'altra la va sempre a finire che di minuti ce ne tocca giocare anche cento ... invece che novanta, che già sarebbero tanti. Calma ragazzi, con calma ... pe' pareggiare c'è ancora du' minuti, risparmiate un po' d'energie, sennò dopo vu' crollate. Oh ... l'era l'ora ... gl'ha fischiato. Bene, via. In trasferta perdere uno a zero ... è un buon risultato .. e soprattutto una grande prestazione, come dice sempre i' mister. Voglio vedere icchè gli hanno da bubare, oggi, questi rompiscatole de' tifosi.

martedì 18 ottobre 2011

Avanti così che si va bene: ma cosa vuole questo Renzi ?

Il PD è riuscito, sia pure per il rotto della cuffia, a perdere anche le elezioni nel Molise. Entusiasmo alle stelle in via del Nazareno, dove questa notte Rosy Bindi si è dovuta  affacciare alla finestra per salutare la festosa  folla che l'acclamava con cori ai quali era impossibile non  dare ascolto. L'impresa di perdere le elezioni nella Regione dell'alleato Di Pietro, pur difficile, poteva contare, è vero,  sull'aiuto offerto dall'ottimo momento, di largo favore popolare, di Berlusconi e  della sua maggioranza governativa alla quale appartiene Iorio, a sua volta favorito per la sua qualità di nome nuovo: è infatti solo al terzo mandato di presidente. La possibilità di perdere le elezioni del Molise pareva ad un certo punto messa in dubbio dalla decisione del centrosinistra, con le primarie, di scegliere come candidato un ex esponente di Forza Italia, poichè alcuni, nel PD, temevano che questi avrebbe potuto portarsi dietro, a suo favore,  una parte dei voti avversari, togliendoli al centrodestra. In parte ciò è avvenuto, ma non è stato sufficiente ed il PD può ora tirare un sospiro di sollievo per lo scampato pericolo. Alla fine hanno avuto ragione quanti, nel PD, sostenevano che proprio  la candidatura dell'ex del centrodestra fosse invece particolarmente strategica, perchè avrebbe spostato sul movimento di Grillo una parte dei troppi voti del centrosinistra, quelli con i quali si sarebbe rischiata la vittoria. E così infatti è stato: l'implicito invito del PD agli elettori di sinistra  perché votassero per la lista Grillo è stato ascoltato nella giusta misura, e tutto è bene quel che finisce bene.  Non tutti sarebbero riusciti a centrare l'obbiettivo di perdere una ghiotta occasione come questa. Bersani, D'Alema ed il gruppo dirigente nazionale del PD sono a ragione soddisfatti: questo risultato, ottenuto in condizioni estreme per i motivi sopra detti, rafforza la loro posizione contro quella marginale fronda che vorrebbe (pensate!) un rinnovamento nella guida del partito. 

sabato 15 ottobre 2011

Un passo indietro, meglio due.

Dopo il voto di fiducia del 14 ottobre, si può dire che se il governo è moribondo, neanche l'opposizione si sente molto bene. Il governo Berlusconi morirà presto, sì, ma solo per autosfinimento, se non per suicidio, perchè i vari Bersani, Bindi, Franceschini, D'Alema, Casini hanno di nuovo confermato, se mai ce ne fosse stato bisogno, che possono solo prolungare l'agonia: del paziente (il governo) e, purtroppo, anche nostra (invece, sempre meno pazienti). Forse un passo indietro, ed un po' di autocritica, non va chiesto solo a Berlusconi, ma un po' a tutti. Invece, per sviare l'attenzione dalle proprie incapacità politiche, si inveisce contro i radicali, che però, come ha ammesso lo stesso capogruppo PD alla Camera, Franceschini (Repubblica.it 14.10.2011), sono stati ininfluenti per il numero legale ed hanno regolarmente votato contro la fiducia richiesta dal governo.
Espressioni di sobria soddisfazione dell'opposizione che torna in aula per il voto del 14.10.2011  dopo il risultato ottenuto sul numero legale  (da Corriere.it 15.10.2011 - Lingria) 

giovedì 13 ottobre 2011

Per non cadere dalla padella nella brace

La sconfitta del governo nel voto alla Camera sul Rendiconto 2010 potrebbe apparire come il suggello della fine dell'era berlusconiana. E' difficile pensare ad un semplice “incidente”, quando la mancata approvazione di un atto rilevante di politica economica - in un momento di gravissima emergenza come quello attuale - è determinata dall'assenza al momento del voto del Ministro dell'Economia, del quale sono ormai palesi i motivi di discordia col Presidente del Consiglio: al di là delle dichiarazioni di facciata, è poco probabile che quell'assenza sia stata puramente accidentale. Ugualmente, nel contesto generale non può esser creduta casuale l'assenza dal voto dell'ex ministro Scaiola, che è fra i capifila di quel gruppo di deputati dell'attuale maggioranza che auspicano un passo indietro di Berlusconi.
Il fatto accaduto è più grave degli altri “incidenti” che, soprattutto negli ultimi mesi, hanno fatto mancare la maggioranza al governo: infatti, finora si era trattato di singoli provvedimenti di natura marginale, questa volta la mancata approvazione riguarda un atto di importanza istituzionale.
La sensibilità democratica avrebbe voluto che il Presidente del Consiglio si fosse affrettato a presentare le proprie dimissioni al Presidente della Repubblica, il quale a sua volta avrebbe potuto concedere al governo la riprova, invitandolo a presentarsi alle Camere per chiedere la fiducia.
Il voto di fiducia probabilmente ci sarà comunque, pur senza passare per la presentazione delle dimissioni, e cioè come iniziativa propria del governo. Ed è qui che si aprono scenari interessanti.
Il governo, pur spesso soccombente in votazioni di routine, è però sempre riuscito a vedersi confermata la fiducia, sia pure con maggioranze risicate (certo, mai tanto risicate quanto lo era quella, al Senato, del precedente governo Prodi). Ciò è accaduto anche di recente, ed in questo senso è da inquadrare, senza qui fare commenti di merito, la stessa fiducia confermata al ministro Romano.
Tuttavia ci sono segnali che fanno dubitare che questa capacità di serrare le fila sia ancora un dato concreto. L'azione del governo è da tempo praticamente inesistente, non vi è capacità di proposta, non vi sono iniziative, molti dei singoli ministri sembrano ormai aver tirato i remi in barca in attesa degli eventi, senza parlare del Presidente del Consiglio, che appare incredibilmente il più sfiduciato di tutti verso sé stesso nonostante i voti di fiducia parlamentari che è riuscito ancora a raccogliere.
Il crescente malumore nella già ristretta maggioranza, il timore che Berlusconi conduca alla rovina, assieme a sé stesso, tante private fortune parlamentari se le prossime elezioni dovessero svolgersi ancora con lui candidato premier, potrebbero – nel contesto attuale – portare alla sorpresa di una bocciatura del governo in occasione del prossimo voto di fiducia.
Più che il frutto dell'azione, che appare sempre più impotente, dell'opposizione (per la quale in realtà si potrebbero aprire scenari paurosi, quando non avrà più di fronte a sé un Berlusconi da combattere, e dovrà quindi venire allo scoperto con idee e proposte proprie, che forse non ha), un eventuale voto di sfiducia potrebbe essere il primo passo di una strategia di difesa e di conservazione dello stesso centrodestra, che altrimenti,  in queste condizioni, sarebbe probabilmente candidato ad una rovinosa sconfitta elettorale.
Si tratta di vedere se i termini di questo scenario sono già stati definiti dagli attuali protagonisti della scena politica: è evidente che per un programma di questo genere, la caduta del governo Berlusconi non dovrebbe portare ad elezioni immediate, e nemmeno nella primavera del 2012: troppo poco il tempo per evitare, sul voto dei cittadini, le conseguenze del disastroso governo ancora in carica. Non per niente, questa delle elezioni rapide è la tesi cara - oltre che, a parole, allo stesso Presidente del consiglio, ma sempre più a titolo personale - soprattutto alla maggioranza del PD ed alla sinistra in genere: le "elezioni subito" consentirebbero loro una vittoria senza colpo ferire, anche senza idee e proposte da esporre; sarebbe sufficiente, per vincere, la pessima prova di sé che l'attuale governo ed il suo presidente hanno dato finora. Questa soluzione finirebbe per  perpetuare quel che è sempre accaduto dal 1994 ad oggi, con i risultati che abbiamo visto e che vediamo: ad ogni elezione, si sono alternati regolarmente al governo una volta Berlusconi (1994-2001-2008) e la volta successiva (1996-2006) i superstiti della prima repubblica ( D'Alema, Prodi, Rosy Bindi ecc.) . Ognuno, dal 1994 ad oggi, quando ha vinto, non ci è riuscito per la forza delle proprie idee, ma sfruttando passivamente la reazione dell'elettorato alla pessima prova fornita dal governo precedente, di qualunque colore esso fosse stato. E così sarebbe, con tutta probabilità, in occasione di eventuali elezioni a primavera 2012, dalle quali nascerebbe probabilmente un nuovo governo di centrosinistra tipo "ammucchiata" tra Fini, Casini, il PD, Di Pietro e Vendola il quale poi, per l'evidente incompatibilità delle sue componenti, come la famigerata "Unione" di Prodi (2006-2008) andrebbe subito in affanno e condurrebbe a nuove elezioni anticipate, che probabilmente  aprirebbero le porte (ormai lo sappiamo) ad un altro  governo Berlusconi, se questi sarà rimasto in politica. E così via ... finchè morte non ci separi (da tutti loro).
Forse, chi non vuol cadere dalla padella nella brace, o vuole almeno friggere in una  padella nuova  dopo aver cambiato anche l'olio, immagina, dopo la caduta di Berlusconi (ora, fra qualche settimana o al massimo qualche mese) un governo di decantazione con qualche connotazione tecnica che rassicuri soprattutto i mercati, dei quali colpevolmente in questo momento – al di là delle parole – tutti si disinteressano, compresa l'opposizione di centro e di sinistra, che non ha proposte da fare. Il nuovo governo potrebbe avere, da un lato, il compito di assestare in modo conveniente la manovra economica, avendo come punto di riferimento la lettera di agosto della BCE (e quindi coloro che non ne condividono i contenuti resterebbero all'opposizione) e, dall'altro, di mettere a punto una nuova legge elettorale che, togliendo di mezzo l'obbrobrio attuale (sperimentato per la prima volta, ricordiamolo, con la legge elettorale della Regione Toscana, a suo tempo concordata tra Martini e Verdini...), raggiunga un ragionevole compromesso tra le varie ipotesi che circolano, rendendo così inutile il referendum. In realtà, è difficile ipotizzare una sana legge elettorale che non sia il frutto di un compromesso tra le diverse opzioni auspicate dalle forze politiche che saranno le parti in causa.
Una volta conclusa questa operazione, si potrebbe andare alle elezioni alla scadenza naturale della primavera 2013, contando che nel frattempo tutto ciò che già si muove nei due fronti contrapposti attuali possa portare ad una scomposizione e ricomposizione su assetti diversi, ma soprattutto con una classe politica che, a prescindere dall'età, sia in grado di esprimere idee e non solo di occupare il potere come è stato con Berlusconi, Prodi, D'Alema, Bossi, Casini, Fini, Bindi e tutti gli altri loro comprimari  dal 1994 ad oggi.

mercoledì 12 ottobre 2011

"Non tutti i bastardi sono di Vienna" di Andrea Molesini - Ed. Sellerio

Il romanzo è ambientato nell'autunno-inverno del 1917 a Refrontolo, provincia di Treviso, a due passi dal Piave che gli austriaci, dopo Caporetto, cercano invano di passare. Refrontolo, piccolo paese agricolo, si trova nella zona già occupata dalla forze dell'impero austroungarico. Nella  villa della famiglia Spada si installa una guarnigione occupante, chiudendo in un angolo i proprietari, che assaporano quanto sia amaro esser ospiti in casa propria. La guerra, con le sue tragedie ed il suo sangue, è vicinissima, ma nel romanzo se ne avvertono solo gli echi, e se ne vedono gli effetti nei corpi martoriati dei feriti che vengono soccorsi a Villa Spada e nella chiesa del paese. I personaggi sono tutti ben delineati e credibili. Il nonno Guglielmo, vecchio mangiapreti, per dispetto alla chiesa di dice buddista e sotto i baffi (che poi si taglierà) sorride soddisfatto per come sua moglie lo tenga alla larga dall'amministrazione della casa e del patrimonio, dandogli modo di far credere che, chiuso nel suo “pensatoio” con la fida macchina da scrivere non a caso chiamata “Belzebù”, stia scrivendo un romanzo, che ovviamente non finirà mai. La nonna, la colta Signora Nancy, cultrice della scienza matematica, impersona perfettamente la padrona di casa austera, benché di libere e larghe vedute, che incute ed esige rispetto. Peraltro la conduzione della famiglia e della proprietà ricadono sulle spalle della nubile zia Maria, donna forte e concreta che dalla descrizione dell'autore emerge come dotata anche di un certo fascino e di una sua bellezza, doti alle quali non sembrano insensibili i comandanti delle due diverse guarnigioni che si alternano a Villa Spada. Questi rapporti di parentela (nonno, nonna, zia) conducono al personaggio narrante, il giovane diciassettenne Paolo, orfano di padre e di madre periti insieme in una sciagura mentre erano in viaggio. Attraverso gli occhi di questo ragazzo, Molesini ci fa entrare nell'atmosfera tragica di una comunità sconvolta dalla guerra e sotto il pugno ferreo degli occupanti. La durezza contingente accorcia le distanze di censo tra gli abitanti di Refrontolo, che si trovano uniti – signori e servi, padroni e contadini, prete e mangiapreti - per sopravvivere, ma senza pretese di eroismo. Paolo è un ragazzo che nel corso delle pagine del romanzo diventa uomo: lo diventa grazie al rapporto che nasce con la spregiudicata Giulia, più grande di lui, ormai una donna di venticinque anni, che abita da sola in una porzione di una villa vicina: ragazza bella e attraente, crudele e appassionata; e lo diventa – uomo – anche grazie alla conoscenza con Renato, toscano da poco assunto come custode della villa, il quale lo introduce alle attività di resistenza contro l'invasore, come Giulia lo introduce alle prime esperienze dell'amore adulto (col compiacimento di nonno Gugliemo che ovviamente scopre subito le prime tresche del nipote con la bella Giulia). Questi tre uomini, Gugliemo, Paolo e Renato, si trovano legati ad un destino comune sul quale si dispiega l'ultima parte della narrazione. E' proprio la crescita di Paolo in quei pochi mesi, il suo passaggio da ragazzo a uomo, il motivo conduttore del romanzo, col sottofondo delle tragedie della guerra, della quale a Refrontolo arrivano gli echi, e della altera dignità con la quale ricchi e poveri fanno fronte comune agli invasori, già inquieti  come se avvertissero i segni della definitiva disfatta che arriverà l'anno successivo. 
Un romanzo pieno, corposo, ben scritto, che si fa leggere fino all'ultima riga. Il titolo non è molto felice (potrebbe giustificare una protesta diplomatica da parte della Repubblica austriaca ...). Esso  è un mero pretesto: una frase gettata lì da un personaggio minore, frase che non ha niente a che vedere con la storia narrata se non per il riferimento a Vienna e – sotto sotto - per il richiamo ad una delle miserevoli conseguenze della penuria di cibo causata dalla guerra. Se qualcuno, prima di leggere il libro, cercasse di indovinare chi siano i bastardi che non sono di Vienna, sbaglierebbe sicuramente, ma non per la vastità della platea di riferimento.
Il romanzo di Molesini ha vinto il Premio Campiello 2011 ed il Premio Comisso 2011
Immagine ripresa dal sito dell'Editore

lunedì 3 ottobre 2011

In principio ...

Commentando sul Corriere della Sera del 30 settembre il recente saggio del matematico ed astrofisico Roger Penrose ”Dal Big Bang all'eternità” (Ed. Rizzoli), Giovanni Caprara illustra sinteticamente la teoria che vi è riportata, la quale cerca di dare la risposta al quesito concernente cosa vi fosse prima del Big Bang che, 13,7 miliardi di anni fa, avrebbe dato origine all'universo e quindi a cosa fosse dovuto questo primigenio evento che ancora manda a noi il suo residuo rumore di fondo. Secondo Penrose, si può ritenere probabile che l'universo nel quale siamo ora immersi faccia seguito ad un altro precedente universo, trasformatosi nell'attuale a seguito del Big Bang di 13,7 miliardi di anni fa (il termine Big Bang, ricorda Caprara, è stato introdotto dall'astrofisico, ma anche scrittore di romanzi di fantascienza, Fred Hoyle). Cioè, come dice Caprara: “Penrose ci spiega che l' universo è sempre esistito e sempre esisterà. Che l' universo nel quale noi viviamo è solo uno degli infiniti universi che in sequenza si succedono, uno dopo l' altro, per l' eternità. Ognuno di essi rappresenta solo un periodo di tempo, un «eone»: si origina da un Big Bang, si diffonde fino a dissolversi includendo i buchi neri grazie alla teoria di Hawking, ma creando nel contempo le condizioni per la successiva rinascita, il nuovo Big Bang”.
Converrebbe leggere il libro di Penrose, anche se questa è forse un'impresa ardua per noi profani dell'astrofisica, che ben poco ci capiremmo. Tuttavia il commento di Caprara offre una sintesi che pare abbastanza chiara anche per i profani, ai quali però sorge ora – rispettosissimamente – un dilemma. Avevamo finalmente capito che l'origine dell'universo era da ritrovarsi nel Big Bang, anche se non si sapeva come questo si fosse prodotto e cosa ci fosse prima. Ora apprendiamo che il Big Bang di 13,7 miliardi di anni fa ebbe origine da uno sconvolgimento che riguardò un precedente universo, anche il quale, a sua volta, era nato da un altro Big Bang prodottosi in un precedente universo, e così via a ritroso. Il profano, sicuramente sbagliando, con la sua inguaribile presunzione ed ottusità è indotto quindi a pensare che la ricerca sull'origine dell'universo sia tornata al punto di partenza: esiste un “primo universo” ? Cosa c'era ancora prima ?
Mancando sicuramente di rispetto agli scienziati, un profano ottuso ed irriverente potrebbe dire che, dopo tante ricerche, essi hanno scoperto che la gallina è nata da un uovo, e dopo altri approfonditi studi hanno accertato, quasi con certezza, che l'uovo era nato da una gallina vissuta in precedenza, la quale a sua volta ...
Un profano meno irriverente potrebbe invece riflettere sul fatto che la scienza ha svolto egregiamente il suo compito, osservando e spiegando tutto quello che poteva osservare e spiegare, e che il risultato raggiunto è probabilmente vero e rappresenta un grande traguardo, ma che ora la scienza lascia il campo alla filosofia, più adatta a speculare su concetti come “eternità” e “sempre” - l'universo è sempre esistito, gli universi si succedono per l'eternità, dice Penrose - di quanto non lo sia la scienza, che può darci una verità scientifica “solo” intorno a cose che hanno un inizio ed una fine. La scienza ha fatto quel che doveva e poteva: ci ha spiegato come è nato “questo universo” e come finirà (con un altro Big Bang, al quale seguirà un altro universo), ma contemporaneamente, ed è un gran merito, introduce altre domande per le quali essa stessa - richiamando i concetti di “sempre” e di “eterno” - ci indica di rivolgerci ad altre competenze.

Sir Roger Penrose è nato a Colchester (Essex, Inghilterra) l'8.8.1931. Ha studiato all'University College School di Londra e al St. John's College di Cambridge. Nel 1967 si è laureato in fisica a Cambridge.
Dal 1973 insegna matematica ad Oxford.
Per i suoi studi sulla struttura dell'universo, nel 1988 ha ottenuto il premio Wolf.

venerdì 30 settembre 2011

Governare non vuol dire occupare

Nel suo articolo di oggi su La Repubblica (“Paese sgovernato”) Massimo Giannini commenta i due recenti e contrapposti episodi parlamentari: la bocciatura della sfiducia al ministro Romano, proposta dalle opposizioni, e la sconfitta del governo su un emendamento relativo alla destinazione dell'otto per mille. Dice Giannini che quanto accaduto “...è la cifra politica della maggioranza attuale: resiste quando il test parlamentare mette in gioco la sua sopravvivenza, non esiste quando si tratta di votare l'ordinaria amministrazione. Cioè quando si tratta di governare il Paese. Infatti il Paese è di fatto sgovernato da tre anni e mezzo.”
Ora, se si dice che il Paese è sgovernato da tre anni e mezzo si vuol sottintendere un dato che a molti pare erroneo, e cioè che prima di questi tre anni e mezzo – e cioè col governo Prodi – il paese fosse stato governato. Infatti possiamo ricordare che proprio la sua assoluta immobilità permise a quell'esecutivo di procrastinare la sua fine, annunciata fin dalla stentata nascita. Infatti, su ogni questione le varie componenti di quella eterogenea maggioranza – da Mastella e Dini da una parte, a Diliberto e Vladimir Luxuria dall'altra – avevano opinioni divergenti e ogni decisione sottoposta al voto parlamentare costituiva un rischio gravissimo di soccombenza. Per questo il governo cercava di evitare di sottoporre proprie decisioni al voto parlamentare, contentandosi di occupare il potere (con tutto ciò che ne derivava e tutt'oggi ne deriva) senza governare. Anche allora il governo si ricompattava (dovendo peraltro chiedere il soccorso degli ottuagenari e centenari senatori a vita, crudelmente sottoposti ad inopportuni disagi), solo quando - proprio come dice Giannini riferendosi all'attuale governo - il test parlamentare metteva in gioco la sua sopravvivenza. Quindi, troppo fortunati saremmo stati, se il Paese fosse sgovernato solo da tre anni e mezzo.
Detto questo, l'articolo di Giannini fa riflettere su un punto cruciale. Se il dibattito politico continua ad avvitarsi tra chi vuole abbattere questo governo (impresa troppo facile; peraltro ancora non riuscita, e bisognerebbe chiedersi il motivo) e chi lo vuol difendere (impresa impossibile, alla quale stanno gradualmente rinunciando gli stessi componenti dell'esecutivo) si andrà da poche parti. Al massimo avremo un nuovo governo sul tipo di quello dell'incolpevole Prodi del 2006, con la prospettiva di allungare ancora l'ingovernabilità (tra Fioroni e Vendola) e di perpetuare quello spettacolo – che di per sé sarebbe ottimo - che vede, ad ogni elezione, l'opposizione e il governo scambiarsi i ruoli, ma – e qui lo spettacolo diventa invece triste - non per governare il Paese, bensì per occuparlo, come è regolarmente accaduto dal 1994 ad oggi. Anche se c'è occupante ed occupante, e non tutti gli occupanti sono uguali, la politica in realtà dovrebbe essere qualcosa di diverso e di più serio.

giovedì 29 settembre 2011

La lettera svelata

Su "Italians" del Corriere della Sera di oggi 29 settembre, Beppe Severgnini ipotizza che il centro sinistra, se si mette un po' d'impegno,  possa riuscire a perdere anche le prossime elezioni (del resto, era riuscito a "perderle" anche quando apparentemente le aveva vinte: con Prodi nel 2006). Dice Severgnini: "Se vi chiedessero cosa intende fare un futuro governo Bersani .... cosa rispondereste? Che non lo sapete. Le proposte sono infatti molte e confuse". Si potrebbe aggiunge che forse non lo sa neppure lo stesso Bersani, cosa intenderebbe fare. Si trova conferma di questa previsione anche alla luce della famigerata lettera della BCE, a doppia firma Draghi-Trichet,  che proprio oggi  il Corriere pubblica in esclusiva, avendola avuta per "vie traverse". Non appena si ebbe notizia dell'esistenza di questa lettera, all'inizio di agosto, l'opposizione aveva reclamato con virulenza che essa venisse resa nota, col secondo fine di far credere che contenesse indicazioni che il governo voleva tenere nascoste perchè lo sconfessavano. Ora che ne conosciamo il contenuto, possiamo vedere che, in realtà, dopo aver sottolineato che la reputazione "della firma sovrana dell'Italia" - i nostri titoli di Stato - deve essere rafforzata" (notazione che sicuramente non è un complimento),  la BCE, quando scende dal generale al particolare, sollecita il governo  su linee d'azione che,  quasi tutte, sconfessano proprio l'opposizione, contro alcune delle quali, timidamente e parzialmente recepite dal governo,  essa ha anche indetto recentemente degli scioperi. Se l'opposizione attuale fra qualche mese fosse al governo, come si comporterebbe con le indicazioni della BCE ? Per coerenza, dovrebbe aprire un contenzioso con gli organismi europei: le sue posizioni sono assai più lontane da quanto richiesto nella lettera della BCE di quanto non lo siano quelle dell'attuale governo, agonizzante anche perchè è incapace di metterle in pratica, come è incapace di tante altre cose.
Forse, con le prossime elezioni,  è auspicabile un  totale rimescolamento delle carte che mandi definitivamente in pensione i troppi superstiti della prima repubblica (che affollano soprattutto il partito di Bersani) e le incapaci macchiette  venute a galla con la seconda (che albergano nel PDL), con la formazione di una forza che attragga quanti, nell'uno e nell'altro schieramento finora contrapposti, possano garantire una politica moderna, seria e solidale.        

venerdì 23 settembre 2011

Ci sarà pure un giudice per Napoli, a Napoli.

Oggi apprendiamo che i giudici di Napoli stanno indagando su una nuova serie di partite di calcio truccate. Sappiamo inoltre che, da tempo, i giudici di Napoli stanno esperendo il processo per calciopoli del 2006. Sono sicuri, i giudici di Napoli, che non ci sia niente da indagare  su quel che accade ogni giorno a Napoli ?

Denaro e Bellezza. I banchieri, Botticelli e il rogo delle vanità – Firenze, Palazzo Strozzi. 17.9.2011 -22.1.2012

1

I titoli delle mostre, nella loro necessitata sinteticità, raramente riescono a dare un quadro completo delle sensazioni che il visitatore ne ricaverà; riuscirci sarebbe del resto impossibile anche per la soggettività che,nel campo dell'arte, ha un rilievo assoluto. Anche in questo caso, “il denaro, “i banchieri” sono parole che possono fuorviare. Il tema della mostra è ambizioso: illustrare l'intreccio denaro-religione-arte che mai come nel Rinascimento si è espresso in termini tanto netti ed inequivocabili, per mettere in luce le radici stesse di quell'irripetuta stagione d'oro ed i motivi per i quali Firenze ne fu il fulcro, fino al “rogo delle vanità” predicato da fra' Gerolamo Savonarola. Quella fu l'epoca di maggiore floridezza di Firenze, che con i suoi mercanti e banchieri faceva affari in tutta Europa. Le famiglie importanti accumulavano denaro, lo prestavano, anche ad usura, e peccavano. Peccavano, perché lucrare prestando denaro è contro l'insegnamento cristiano. L'usuraio pecca perché vende l'intervallo di tempo tra il momento in cui presta e quello in cui viene rimborsato col prezzo della vendita: l'interesse . Egli quindi fa commercio del tempo, che non è suo, ma di Dio. Gli usurai peccavano per la loro avarizia, intesa all'epoca non tanto quanto “tirchieria”, quanto come amore e cupidigia per i beni terreni. I ricchi dell'epoca sapevano di peccare, arricchendosi. Ma se cessavano di peccare, avrebbero anche cessato di arricchirsi. Pensavano quindi di ottenere la salvezza dell'anima non tanto pentendosi – non si pentivano affatto, continuavano anzi a fare i loro affari - ma magnificando Dio e per far ciò commissionavano opere che lo glorificassero, opere da destinare sia alla privata devozione, sia a maggior decoro di luoghi sacri. Su questo modo di ottenere la salvezza dell'anima fiorì e si sviluppò quel grande movimento artistico che ebbe il suo centro a Firenze, che - proprio perché fiorentini erano i maggiori mercanti e banchieri del mondo - era all'epoca la capitale di quel particolare peccato, e di quel surrogato di pentimento che si rivelò così provvidenziale per l'arte . A loro parziale attenuante va detto che, come si nota da alcune delle opere in mostra, essi accettavano anche che l'artista realizzasse un'opera nella quale, allegoricamente, l'attività fonte del loro peccato – l'usura, l'avarizia – venisse severamente condannata. Se queste opere fustigatrici erano accettate da chi ne pagava il corrispettivo, ciò era forse per la maggiore afflizione che così egli ne ricavava, col conseguente maggiore beneficio ai fini della salvezza dell'anima.
La mostra raccoglie oltre cento opere di vari artisti, tra i quali spiccano Sandro Botticelli ("La Calunnia" - immagine iniziale -  "Madonna con Bambino  e San Giovannino", e altri), il Beato Angelico, Lorenzo di Credi, Memling (San Benedetto e Benedetto Portinari), Jan Provoost ("L'usuraio e la morte" - immagine finale), Maso Finiguerra, Marinus van Reymerswaele (figura qui sotto).
2

 Fra le curiosità storiche, un frammento della veste che indossava Giuliano de' Medici quando fu accoltellato in Duomo per la congiura de' Pazzi. L'audioguida accenna, nella presentazione iniziale, ad un confronto dialettico, nell'illustrare il percorso, tra le “due campane” rappresentate dai due curatori: Ludovica Sebregondi e Tim Parks nelle contrapposte vesti di storica dell'arte la prima e di scrittore e giornalista il secondo; di cattolica l'una, di protestante l'altro. Peraltro questo interessante contrappunto viene del tutto ignorato nei testi dell'audioguida e trova scarsa visibilità nei pannelli annessi alle singole opere.
La mostra vale sicuramente una visita, per la quale – senza fretta e con l'ausilio dell'audioguida – occorre almeno un'ora e mezzo, se non due.
3


Immagini riprese dal Sito di Palazzo Strozzi

1 . Sandro Botticelli - La Calunnia - Firenze, Galleria degli Uffizi
2. Marinus van Reymerswaele - Gli Usurai - Firenze Museo Stibbert
3. Jan Provoost - L'avaro e la morte - Bruges, Musea Brugge, Groeningemuseum

martedì 20 settembre 2011

"Il ragazzo che leggeva Maigret" di Francesco Recami (Ed. Sellerio)


Il genere giallo da anni è in voga e gli editori, anche i più seri, spesso non vanno per il sottile pur di accodarsi al filone meno asfittico delle vendite in libreria. E' questo il caso de "Il ragazzo che leggeva Maigret", uscito nel 2009. Si tratta di un giallo un po' particolare, forse più adatto ad un pubblico di ragazzi che di adulti. Giulio è il figlio tredicenne di un fattore e vive ovviamente in campagna, una campagna che, dai nomi usati, si direbbe veneta o friulana, ma che da tanti altri dettagli parrebbe più toscana (come l'autore) e più precisamente maremmana. Giulio è  un accanito divoratore dei gialli di Simenon che hanno per protagonista Maigret; li ha letti quasi tutti e ne è talmente conquistato da affrontare  con lo stile del celebre commissario tutti i normali fatti quotidiani che gli si presentino e che si discostino anche leggermente dalla normalità, sintomo questo di natura criminosa. Anche per questo, Giulio (come altrimenti poteva chiamarsi ?) è conosciuto col soprannome di "Maigret". La vicenda, che si svolge ai giorni nostri, prende l'avvio in una fredda mattina d'inverno, quando Maigret è in attesa della corriera per andare a scuola e vede alcuni movimenti sospetti sull'argine del canale, di là dalla strada. Da qui  prende l'avvio una serie accadimenti avventurosi tipici dei romanzi per ragazzi dell'ottocento, con fughe attraverso la palude a bordo di rottami di legno per sottrarsi all'inseguimento del misterioso personaggio con le scarpe gialle, visite a tre anziane vedove, intervento di altri personaggi simili a macchiette, traffici di maialini di porcellana, per finire col nostro eroe ormai nelle mani del personaggio misterioso, nonostante si sia nascosto in un vecchio deposito abbandonato, dove si tradisce per un irrefrenabile starnuto - dopo tanta umidità -  che ne rivela la presenza. Ovviamente, un istante prima che gli eventi precipitino (ma forse non sarebbero precipitati, perchè alla fine si scopre che son tutti buoni, o quasi) giunge l'ormai insperata salvezza.
La storia lascia un po' sconcertati per gli accadimenti narrati e per il finale, tra i più banali che si possano immaginare, al di là della trovata dei maialini senza coda. Eppure la prosa di Recami è apprezzabile,  fluida e sciolta. Però - e ciò vale anche per i gialli - per scrivere un libro occorre avere qualcosa da dire, altrimenti conviene usare il bello stile per scrivere lettere commerciali. 

(foto ripresa dal Sito dell'Editore)

sabato 17 settembre 2011

“Il pontile sul lago” di Marco Polillo (Ed. Rizzoli)

(foto ripresa dal Sito dell'Editore)
Il romanzo, uscito a giugno 2011 e già alla terza edizione, vede come protagonista il Vice Commissario Enea Zottìa, alle prese – oltre che con le proprie vicissitudini sentimentali – con un duplice omicidio. L'ambientazione è fascinosa: Orta San Giulio, sul lago, nell'assonnata ma anche inquieta provincia piemontese. Qui viene trovato ucciso il professor Gennaro Vattuone, sessantatreenne insegnante in pensione di latino e greco, a suo tempo terribile con i suoi studenti, che non per niente gli avevano affibbiato il nomignolo di “Vaff'uone”. Il professore vive da solo in una bella villetta dal cui parco un pontile si protende sul lago. Proprio sul pontile, accovacciato  come se dormisse, egli viene trovato dal figlio: è stato ucciso con un colpo di pistola alle spalle. Vattuone frequentava ad Orta tre "amici", come tali definiti dall'autore sebbene la descrizione dei reciproci rapporti faccia dubitare dei motivi per i quali i quattro uomini avessero l'abitudine di ritrovarsi giornalmente all'Antico Caffè del Lago. Vedovo da qualche anno, Gennaro aveva fama di donnaiolo, attività che pare avesse esercitato con un certo successo nonostante l'età. Mentre il Vicecommissario Zottìa della Questura di Milano inizia ad indagare perché chiamato dal figlio di Vattuone,  l'autore ci fa conoscere il giovane studente di giurisprudenza Graziano. Il ragazzo  è stato accolto dall'Avv. Favinio, titolare dello studio legale di Orta, per consentirgli di fare un po' di pratica, limitata al momento ad innocue ricerche di giurisprudenza ad uso delle cause che l'avvocato deve trattare. Ma anche Graziano viene raggiunto da un colpo di pistola alla schiena. Attraverso il ritrovamento di alcune foto, le indagini di Zottìa, che ha in appoggio il maresciallo Danova della locale stazione dei Carabinieri, portano alla fine alla scoperta di chi ha sconvolto la tranquilla vita di Orta con quei due fatti di sangue.
Romanzo forse sopravvalutato dalla critica (non certo, si immagina, per la carica di Presidente dell'Associazione Italiana Editori che riveste Polillo, in passato Direttore Generale di Rizzoli e di Mondadori), “Il pontile sul lago” si fa in primo luogo apprezzare soprattutto per la bellissima foto di copertina. La storia e la narrazione cominciano a decollare a metà del romanzo: fino a quel punto può sorgere qualche perplessità nel lettore per una certa fatica che traspare nello sviluppo delle vicende, per l'improbabilità di alcuni personaggi e situazioni così come ci vengono descritti, per alcune sorprendenti trascuratezze e contraddizioni narrative, che in qualche caso sfiorano involontariamente il comico (“Quando arriva alla rotonda, prenda l'ultima strada a sinistra ...” dice il figlio di Vattuone, a telefono, quando chiama Zottìa a Milano perché accorra ad Orta. Se Zottìa avesse seguito l'indicazione, probabilmente non avrebbe mai risolto il caso, e sarebbe ancora lì a girare intorno alla rotonda per trovare “l'ultima strada a sinistra”...). Il finale è tuttavia congegnato in modo non disprezzabile anche se poco originale, mentre non molto realistico sembra il comportamento del Prof. Vattuone che provoca la decisione del suo assassino di ucciderlo.
Nel complesso il romanzo, che non aggiunge granché alla storia del “giallo” italiano, finisce per farsi leggere soprattutto nella sua seconda parte. Il carattere un po' banale della vicenda avrebbe reso troppo pesante la lettura del romanzo ed allora l'autore, sapientemente, ricorre all'intreccio con le vicende sentimentali del vicecommissario, sposato con Enza ma innamorato di Serena, e con quelle, fresche e giovanili, di Graziano, innamorato della bionda Chicca, riuscendo a creare una serie di opportuni diversivi narrativi. Lo scenario scelto, il lago d'Orta, si sarebbe prestato a qualche pennellata d'ambiente, ma l'autore in questo è parso piuttosto parco, limitandosi all'indispensabile.

venerdì 16 settembre 2011

Le parole chiare di Aldo Cazzullo

Su “Sette”, magazine del Corriere della Sera del 15 settembre, Aldo Cazzullo inizia la sua rubrica settimanale con parole inequivocabili e dure: “E' davvero incredibile che non si levi, dall'Italia moderata, dal mondo cattolico, dalla borghesia liberale, una parola chiara: basta, Berlusconi non può fare il presidente del Consiglio. Basta con la bugia sistematica, il prevalere dell'interesse privato su quello pubblico, la convenienza del momento eletta a criterio di governo .... Non è l'inanità della sinistra postcomunista, sconfitta dalla storia e screditata definitivamente da Filippo Penati, a stupire. Non è la petulanza degli antiberlusconiani di professione .... E' il silenzio dei liberali ... “

Cazzullo si rivolge ad una platea ben determinata: quella che, almeno in parte, ha favorito Berlusconi in questi anni - e ne porta ovviamente la responsabilità - pur non essendo “berlusconiana” nel senso farsesco e tragicomico proprio del termine: i moderati, i cattolici, la borghesia, buona parte di quel blocco sociale che nella prima Repubblica aveva dato sostegno alle coalizioni di governo “ad escludendum” del PCI contro il pericolo comunista dell'epoca (Stalin, Kruscev, Breznev ... facevano paura, non erano mica angioletti, come abbiamo saputo dopo). E' lo stesso blocco sociale che nel 1994, spaventato dalla “gioiosa macchina da guerra” con la quale Occhetto era ormai sicuro di vincere le elezioni sulle ceneri prodotte da tangentopoli, in extremis e contro ogni previsione fece vincere il parvenu della politica che veniva dal mondo della televisione e dello spettacolo di terz'ordine.

Questa grande platea, composita ma sostanzialmente omogena nelle linee di fondo, che unisce progressisti ragionevoli e conservatori illuminati, che è borghese ma anche proletaria, che è cattolica ma anche laica, che ha i suoi padri storici in figure come De Gasperi, Nenni, Fanfani, Saragat, La Malfa, Moro, in parte ora alberga, con sempre più evidente disagio, nel PDL e nella Lega; un'altra parte, se ne sta, anch'essa a disagio - e minoritaria - in un PD sempre più nostalgico e incattivito contro i fermenti nuovi, oppure soggiorna più serenamente in altre formazioni minori. Sono questi i cittadini che dovrebbe per primi ribellarsi a Berlusconi, dice Cazzullo: infatti sono proprio loro i maggiori danneggiati dal berlusconismo, che nella sua rovinosa caduta rischia di mandare al potere - contro di loro - proprio i sopravvissuti della prima repubblica, i quali ebbero la furbizia di restare in auge - ed al governo: otto anni su diciassette - anche nella seconda, che era nata per mandarli in pensione. E loro invece sono ancora lì, in attesa della terza, di repubbliche, ed ora, grazie proprio a Berlusconi e al discredito che ha arrecato alla parte politica che egli pretende ancora di rappresentare, si accingono ad infilarsi di nuovo il tovagliolo nel colletto della camicia e rispolverano forchette e coltelli in attesa di risedersi alla tavola imbandita del Paese per riprendere il loro banchetto.

Quello di Cazzullo sembra soprattuto un appello a questa grande platea di italiani, perché ritrovi un'unità d'intenti ed una casa comune allo scopo di far sì che la fine ineluttabile della seconda repubblica non ci riporti nella prima, nella sua fase decadente, ormai priva della forza ideale dei padri fondatori, fase di declino della quale furono protagonisti molti degli stessi politici che in questo periodo si stanno avviando lieti a tavola (ringraziando nel loro intimo Berlusconi).

Sì, forse Cazzullo ipotizza la nascita di una forza in grado di sconfiggere sia il berlusconismo (che peraltro si è già sconfitto da solo) sia la nuova “gioiosa macchina da guerra” che si appresta ad avanzare tra le macerie. Può essere un'idea, basta che - memori di questi disastrosi diciassette anni - si stia attenti a scegliere i guidatori. E che “la parola chiara” venga detta alla svelta, convinta, e produca i suoi effetti.