venerdì 30 settembre 2011

Governare non vuol dire occupare

Nel suo articolo di oggi su La Repubblica (“Paese sgovernato”) Massimo Giannini commenta i due recenti e contrapposti episodi parlamentari: la bocciatura della sfiducia al ministro Romano, proposta dalle opposizioni, e la sconfitta del governo su un emendamento relativo alla destinazione dell'otto per mille. Dice Giannini che quanto accaduto “...è la cifra politica della maggioranza attuale: resiste quando il test parlamentare mette in gioco la sua sopravvivenza, non esiste quando si tratta di votare l'ordinaria amministrazione. Cioè quando si tratta di governare il Paese. Infatti il Paese è di fatto sgovernato da tre anni e mezzo.”
Ora, se si dice che il Paese è sgovernato da tre anni e mezzo si vuol sottintendere un dato che a molti pare erroneo, e cioè che prima di questi tre anni e mezzo – e cioè col governo Prodi – il paese fosse stato governato. Infatti possiamo ricordare che proprio la sua assoluta immobilità permise a quell'esecutivo di procrastinare la sua fine, annunciata fin dalla stentata nascita. Infatti, su ogni questione le varie componenti di quella eterogenea maggioranza – da Mastella e Dini da una parte, a Diliberto e Vladimir Luxuria dall'altra – avevano opinioni divergenti e ogni decisione sottoposta al voto parlamentare costituiva un rischio gravissimo di soccombenza. Per questo il governo cercava di evitare di sottoporre proprie decisioni al voto parlamentare, contentandosi di occupare il potere (con tutto ciò che ne derivava e tutt'oggi ne deriva) senza governare. Anche allora il governo si ricompattava (dovendo peraltro chiedere il soccorso degli ottuagenari e centenari senatori a vita, crudelmente sottoposti ad inopportuni disagi), solo quando - proprio come dice Giannini riferendosi all'attuale governo - il test parlamentare metteva in gioco la sua sopravvivenza. Quindi, troppo fortunati saremmo stati, se il Paese fosse sgovernato solo da tre anni e mezzo.
Detto questo, l'articolo di Giannini fa riflettere su un punto cruciale. Se il dibattito politico continua ad avvitarsi tra chi vuole abbattere questo governo (impresa troppo facile; peraltro ancora non riuscita, e bisognerebbe chiedersi il motivo) e chi lo vuol difendere (impresa impossibile, alla quale stanno gradualmente rinunciando gli stessi componenti dell'esecutivo) si andrà da poche parti. Al massimo avremo un nuovo governo sul tipo di quello dell'incolpevole Prodi del 2006, con la prospettiva di allungare ancora l'ingovernabilità (tra Fioroni e Vendola) e di perpetuare quello spettacolo – che di per sé sarebbe ottimo - che vede, ad ogni elezione, l'opposizione e il governo scambiarsi i ruoli, ma – e qui lo spettacolo diventa invece triste - non per governare il Paese, bensì per occuparlo, come è regolarmente accaduto dal 1994 ad oggi. Anche se c'è occupante ed occupante, e non tutti gli occupanti sono uguali, la politica in realtà dovrebbe essere qualcosa di diverso e di più serio.

giovedì 29 settembre 2011

La lettera svelata

Su "Italians" del Corriere della Sera di oggi 29 settembre, Beppe Severgnini ipotizza che il centro sinistra, se si mette un po' d'impegno,  possa riuscire a perdere anche le prossime elezioni (del resto, era riuscito a "perderle" anche quando apparentemente le aveva vinte: con Prodi nel 2006). Dice Severgnini: "Se vi chiedessero cosa intende fare un futuro governo Bersani .... cosa rispondereste? Che non lo sapete. Le proposte sono infatti molte e confuse". Si potrebbe aggiunge che forse non lo sa neppure lo stesso Bersani, cosa intenderebbe fare. Si trova conferma di questa previsione anche alla luce della famigerata lettera della BCE, a doppia firma Draghi-Trichet,  che proprio oggi  il Corriere pubblica in esclusiva, avendola avuta per "vie traverse". Non appena si ebbe notizia dell'esistenza di questa lettera, all'inizio di agosto, l'opposizione aveva reclamato con virulenza che essa venisse resa nota, col secondo fine di far credere che contenesse indicazioni che il governo voleva tenere nascoste perchè lo sconfessavano. Ora che ne conosciamo il contenuto, possiamo vedere che, in realtà, dopo aver sottolineato che la reputazione "della firma sovrana dell'Italia" - i nostri titoli di Stato - deve essere rafforzata" (notazione che sicuramente non è un complimento),  la BCE, quando scende dal generale al particolare, sollecita il governo  su linee d'azione che,  quasi tutte, sconfessano proprio l'opposizione, contro alcune delle quali, timidamente e parzialmente recepite dal governo,  essa ha anche indetto recentemente degli scioperi. Se l'opposizione attuale fra qualche mese fosse al governo, come si comporterebbe con le indicazioni della BCE ? Per coerenza, dovrebbe aprire un contenzioso con gli organismi europei: le sue posizioni sono assai più lontane da quanto richiesto nella lettera della BCE di quanto non lo siano quelle dell'attuale governo, agonizzante anche perchè è incapace di metterle in pratica, come è incapace di tante altre cose.
Forse, con le prossime elezioni,  è auspicabile un  totale rimescolamento delle carte che mandi definitivamente in pensione i troppi superstiti della prima repubblica (che affollano soprattutto il partito di Bersani) e le incapaci macchiette  venute a galla con la seconda (che albergano nel PDL), con la formazione di una forza che attragga quanti, nell'uno e nell'altro schieramento finora contrapposti, possano garantire una politica moderna, seria e solidale.        

venerdì 23 settembre 2011

Ci sarà pure un giudice per Napoli, a Napoli.

Oggi apprendiamo che i giudici di Napoli stanno indagando su una nuova serie di partite di calcio truccate. Sappiamo inoltre che, da tempo, i giudici di Napoli stanno esperendo il processo per calciopoli del 2006. Sono sicuri, i giudici di Napoli, che non ci sia niente da indagare  su quel che accade ogni giorno a Napoli ?

Denaro e Bellezza. I banchieri, Botticelli e il rogo delle vanità – Firenze, Palazzo Strozzi. 17.9.2011 -22.1.2012

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I titoli delle mostre, nella loro necessitata sinteticità, raramente riescono a dare un quadro completo delle sensazioni che il visitatore ne ricaverà; riuscirci sarebbe del resto impossibile anche per la soggettività che,nel campo dell'arte, ha un rilievo assoluto. Anche in questo caso, “il denaro, “i banchieri” sono parole che possono fuorviare. Il tema della mostra è ambizioso: illustrare l'intreccio denaro-religione-arte che mai come nel Rinascimento si è espresso in termini tanto netti ed inequivocabili, per mettere in luce le radici stesse di quell'irripetuta stagione d'oro ed i motivi per i quali Firenze ne fu il fulcro, fino al “rogo delle vanità” predicato da fra' Gerolamo Savonarola. Quella fu l'epoca di maggiore floridezza di Firenze, che con i suoi mercanti e banchieri faceva affari in tutta Europa. Le famiglie importanti accumulavano denaro, lo prestavano, anche ad usura, e peccavano. Peccavano, perché lucrare prestando denaro è contro l'insegnamento cristiano. L'usuraio pecca perché vende l'intervallo di tempo tra il momento in cui presta e quello in cui viene rimborsato col prezzo della vendita: l'interesse . Egli quindi fa commercio del tempo, che non è suo, ma di Dio. Gli usurai peccavano per la loro avarizia, intesa all'epoca non tanto quanto “tirchieria”, quanto come amore e cupidigia per i beni terreni. I ricchi dell'epoca sapevano di peccare, arricchendosi. Ma se cessavano di peccare, avrebbero anche cessato di arricchirsi. Pensavano quindi di ottenere la salvezza dell'anima non tanto pentendosi – non si pentivano affatto, continuavano anzi a fare i loro affari - ma magnificando Dio e per far ciò commissionavano opere che lo glorificassero, opere da destinare sia alla privata devozione, sia a maggior decoro di luoghi sacri. Su questo modo di ottenere la salvezza dell'anima fiorì e si sviluppò quel grande movimento artistico che ebbe il suo centro a Firenze, che - proprio perché fiorentini erano i maggiori mercanti e banchieri del mondo - era all'epoca la capitale di quel particolare peccato, e di quel surrogato di pentimento che si rivelò così provvidenziale per l'arte . A loro parziale attenuante va detto che, come si nota da alcune delle opere in mostra, essi accettavano anche che l'artista realizzasse un'opera nella quale, allegoricamente, l'attività fonte del loro peccato – l'usura, l'avarizia – venisse severamente condannata. Se queste opere fustigatrici erano accettate da chi ne pagava il corrispettivo, ciò era forse per la maggiore afflizione che così egli ne ricavava, col conseguente maggiore beneficio ai fini della salvezza dell'anima.
La mostra raccoglie oltre cento opere di vari artisti, tra i quali spiccano Sandro Botticelli ("La Calunnia" - immagine iniziale -  "Madonna con Bambino  e San Giovannino", e altri), il Beato Angelico, Lorenzo di Credi, Memling (San Benedetto e Benedetto Portinari), Jan Provoost ("L'usuraio e la morte" - immagine finale), Maso Finiguerra, Marinus van Reymerswaele (figura qui sotto).
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 Fra le curiosità storiche, un frammento della veste che indossava Giuliano de' Medici quando fu accoltellato in Duomo per la congiura de' Pazzi. L'audioguida accenna, nella presentazione iniziale, ad un confronto dialettico, nell'illustrare il percorso, tra le “due campane” rappresentate dai due curatori: Ludovica Sebregondi e Tim Parks nelle contrapposte vesti di storica dell'arte la prima e di scrittore e giornalista il secondo; di cattolica l'una, di protestante l'altro. Peraltro questo interessante contrappunto viene del tutto ignorato nei testi dell'audioguida e trova scarsa visibilità nei pannelli annessi alle singole opere.
La mostra vale sicuramente una visita, per la quale – senza fretta e con l'ausilio dell'audioguida – occorre almeno un'ora e mezzo, se non due.
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Immagini riprese dal Sito di Palazzo Strozzi

1 . Sandro Botticelli - La Calunnia - Firenze, Galleria degli Uffizi
2. Marinus van Reymerswaele - Gli Usurai - Firenze Museo Stibbert
3. Jan Provoost - L'avaro e la morte - Bruges, Musea Brugge, Groeningemuseum

martedì 20 settembre 2011

"Il ragazzo che leggeva Maigret" di Francesco Recami (Ed. Sellerio)


Il genere giallo da anni è in voga e gli editori, anche i più seri, spesso non vanno per il sottile pur di accodarsi al filone meno asfittico delle vendite in libreria. E' questo il caso de "Il ragazzo che leggeva Maigret", uscito nel 2009. Si tratta di un giallo un po' particolare, forse più adatto ad un pubblico di ragazzi che di adulti. Giulio è il figlio tredicenne di un fattore e vive ovviamente in campagna, una campagna che, dai nomi usati, si direbbe veneta o friulana, ma che da tanti altri dettagli parrebbe più toscana (come l'autore) e più precisamente maremmana. Giulio è  un accanito divoratore dei gialli di Simenon che hanno per protagonista Maigret; li ha letti quasi tutti e ne è talmente conquistato da affrontare  con lo stile del celebre commissario tutti i normali fatti quotidiani che gli si presentino e che si discostino anche leggermente dalla normalità, sintomo questo di natura criminosa. Anche per questo, Giulio (come altrimenti poteva chiamarsi ?) è conosciuto col soprannome di "Maigret". La vicenda, che si svolge ai giorni nostri, prende l'avvio in una fredda mattina d'inverno, quando Maigret è in attesa della corriera per andare a scuola e vede alcuni movimenti sospetti sull'argine del canale, di là dalla strada. Da qui  prende l'avvio una serie accadimenti avventurosi tipici dei romanzi per ragazzi dell'ottocento, con fughe attraverso la palude a bordo di rottami di legno per sottrarsi all'inseguimento del misterioso personaggio con le scarpe gialle, visite a tre anziane vedove, intervento di altri personaggi simili a macchiette, traffici di maialini di porcellana, per finire col nostro eroe ormai nelle mani del personaggio misterioso, nonostante si sia nascosto in un vecchio deposito abbandonato, dove si tradisce per un irrefrenabile starnuto - dopo tanta umidità -  che ne rivela la presenza. Ovviamente, un istante prima che gli eventi precipitino (ma forse non sarebbero precipitati, perchè alla fine si scopre che son tutti buoni, o quasi) giunge l'ormai insperata salvezza.
La storia lascia un po' sconcertati per gli accadimenti narrati e per il finale, tra i più banali che si possano immaginare, al di là della trovata dei maialini senza coda. Eppure la prosa di Recami è apprezzabile,  fluida e sciolta. Però - e ciò vale anche per i gialli - per scrivere un libro occorre avere qualcosa da dire, altrimenti conviene usare il bello stile per scrivere lettere commerciali. 

(foto ripresa dal Sito dell'Editore)

sabato 17 settembre 2011

“Il pontile sul lago” di Marco Polillo (Ed. Rizzoli)

(foto ripresa dal Sito dell'Editore)
Il romanzo, uscito a giugno 2011 e già alla terza edizione, vede come protagonista il Vice Commissario Enea Zottìa, alle prese – oltre che con le proprie vicissitudini sentimentali – con un duplice omicidio. L'ambientazione è fascinosa: Orta San Giulio, sul lago, nell'assonnata ma anche inquieta provincia piemontese. Qui viene trovato ucciso il professor Gennaro Vattuone, sessantatreenne insegnante in pensione di latino e greco, a suo tempo terribile con i suoi studenti, che non per niente gli avevano affibbiato il nomignolo di “Vaff'uone”. Il professore vive da solo in una bella villetta dal cui parco un pontile si protende sul lago. Proprio sul pontile, accovacciato  come se dormisse, egli viene trovato dal figlio: è stato ucciso con un colpo di pistola alle spalle. Vattuone frequentava ad Orta tre "amici", come tali definiti dall'autore sebbene la descrizione dei reciproci rapporti faccia dubitare dei motivi per i quali i quattro uomini avessero l'abitudine di ritrovarsi giornalmente all'Antico Caffè del Lago. Vedovo da qualche anno, Gennaro aveva fama di donnaiolo, attività che pare avesse esercitato con un certo successo nonostante l'età. Mentre il Vicecommissario Zottìa della Questura di Milano inizia ad indagare perché chiamato dal figlio di Vattuone,  l'autore ci fa conoscere il giovane studente di giurisprudenza Graziano. Il ragazzo  è stato accolto dall'Avv. Favinio, titolare dello studio legale di Orta, per consentirgli di fare un po' di pratica, limitata al momento ad innocue ricerche di giurisprudenza ad uso delle cause che l'avvocato deve trattare. Ma anche Graziano viene raggiunto da un colpo di pistola alla schiena. Attraverso il ritrovamento di alcune foto, le indagini di Zottìa, che ha in appoggio il maresciallo Danova della locale stazione dei Carabinieri, portano alla fine alla scoperta di chi ha sconvolto la tranquilla vita di Orta con quei due fatti di sangue.
Romanzo forse sopravvalutato dalla critica (non certo, si immagina, per la carica di Presidente dell'Associazione Italiana Editori che riveste Polillo, in passato Direttore Generale di Rizzoli e di Mondadori), “Il pontile sul lago” si fa in primo luogo apprezzare soprattutto per la bellissima foto di copertina. La storia e la narrazione cominciano a decollare a metà del romanzo: fino a quel punto può sorgere qualche perplessità nel lettore per una certa fatica che traspare nello sviluppo delle vicende, per l'improbabilità di alcuni personaggi e situazioni così come ci vengono descritti, per alcune sorprendenti trascuratezze e contraddizioni narrative, che in qualche caso sfiorano involontariamente il comico (“Quando arriva alla rotonda, prenda l'ultima strada a sinistra ...” dice il figlio di Vattuone, a telefono, quando chiama Zottìa a Milano perché accorra ad Orta. Se Zottìa avesse seguito l'indicazione, probabilmente non avrebbe mai risolto il caso, e sarebbe ancora lì a girare intorno alla rotonda per trovare “l'ultima strada a sinistra”...). Il finale è tuttavia congegnato in modo non disprezzabile anche se poco originale, mentre non molto realistico sembra il comportamento del Prof. Vattuone che provoca la decisione del suo assassino di ucciderlo.
Nel complesso il romanzo, che non aggiunge granché alla storia del “giallo” italiano, finisce per farsi leggere soprattutto nella sua seconda parte. Il carattere un po' banale della vicenda avrebbe reso troppo pesante la lettura del romanzo ed allora l'autore, sapientemente, ricorre all'intreccio con le vicende sentimentali del vicecommissario, sposato con Enza ma innamorato di Serena, e con quelle, fresche e giovanili, di Graziano, innamorato della bionda Chicca, riuscendo a creare una serie di opportuni diversivi narrativi. Lo scenario scelto, il lago d'Orta, si sarebbe prestato a qualche pennellata d'ambiente, ma l'autore in questo è parso piuttosto parco, limitandosi all'indispensabile.

venerdì 16 settembre 2011

Le parole chiare di Aldo Cazzullo

Su “Sette”, magazine del Corriere della Sera del 15 settembre, Aldo Cazzullo inizia la sua rubrica settimanale con parole inequivocabili e dure: “E' davvero incredibile che non si levi, dall'Italia moderata, dal mondo cattolico, dalla borghesia liberale, una parola chiara: basta, Berlusconi non può fare il presidente del Consiglio. Basta con la bugia sistematica, il prevalere dell'interesse privato su quello pubblico, la convenienza del momento eletta a criterio di governo .... Non è l'inanità della sinistra postcomunista, sconfitta dalla storia e screditata definitivamente da Filippo Penati, a stupire. Non è la petulanza degli antiberlusconiani di professione .... E' il silenzio dei liberali ... “

Cazzullo si rivolge ad una platea ben determinata: quella che, almeno in parte, ha favorito Berlusconi in questi anni - e ne porta ovviamente la responsabilità - pur non essendo “berlusconiana” nel senso farsesco e tragicomico proprio del termine: i moderati, i cattolici, la borghesia, buona parte di quel blocco sociale che nella prima Repubblica aveva dato sostegno alle coalizioni di governo “ad escludendum” del PCI contro il pericolo comunista dell'epoca (Stalin, Kruscev, Breznev ... facevano paura, non erano mica angioletti, come abbiamo saputo dopo). E' lo stesso blocco sociale che nel 1994, spaventato dalla “gioiosa macchina da guerra” con la quale Occhetto era ormai sicuro di vincere le elezioni sulle ceneri prodotte da tangentopoli, in extremis e contro ogni previsione fece vincere il parvenu della politica che veniva dal mondo della televisione e dello spettacolo di terz'ordine.

Questa grande platea, composita ma sostanzialmente omogena nelle linee di fondo, che unisce progressisti ragionevoli e conservatori illuminati, che è borghese ma anche proletaria, che è cattolica ma anche laica, che ha i suoi padri storici in figure come De Gasperi, Nenni, Fanfani, Saragat, La Malfa, Moro, in parte ora alberga, con sempre più evidente disagio, nel PDL e nella Lega; un'altra parte, se ne sta, anch'essa a disagio - e minoritaria - in un PD sempre più nostalgico e incattivito contro i fermenti nuovi, oppure soggiorna più serenamente in altre formazioni minori. Sono questi i cittadini che dovrebbe per primi ribellarsi a Berlusconi, dice Cazzullo: infatti sono proprio loro i maggiori danneggiati dal berlusconismo, che nella sua rovinosa caduta rischia di mandare al potere - contro di loro - proprio i sopravvissuti della prima repubblica, i quali ebbero la furbizia di restare in auge - ed al governo: otto anni su diciassette - anche nella seconda, che era nata per mandarli in pensione. E loro invece sono ancora lì, in attesa della terza, di repubbliche, ed ora, grazie proprio a Berlusconi e al discredito che ha arrecato alla parte politica che egli pretende ancora di rappresentare, si accingono ad infilarsi di nuovo il tovagliolo nel colletto della camicia e rispolverano forchette e coltelli in attesa di risedersi alla tavola imbandita del Paese per riprendere il loro banchetto.

Quello di Cazzullo sembra soprattuto un appello a questa grande platea di italiani, perché ritrovi un'unità d'intenti ed una casa comune allo scopo di far sì che la fine ineluttabile della seconda repubblica non ci riporti nella prima, nella sua fase decadente, ormai priva della forza ideale dei padri fondatori, fase di declino della quale furono protagonisti molti degli stessi politici che in questo periodo si stanno avviando lieti a tavola (ringraziando nel loro intimo Berlusconi).

Sì, forse Cazzullo ipotizza la nascita di una forza in grado di sconfiggere sia il berlusconismo (che peraltro si è già sconfitto da solo) sia la nuova “gioiosa macchina da guerra” che si appresta ad avanzare tra le macerie. Può essere un'idea, basta che - memori di questi disastrosi diciassette anni - si stia attenti a scegliere i guidatori. E che “la parola chiara” venga detta alla svelta, convinta, e produca i suoi effetti.

giovedì 15 settembre 2011

Le pene dello stadio

Nel suo primo intervento dopo l'insediamento, con una intervista a La Repubblica, il neo assessore all'urbanistica del Comune di Firenze, Elisabetta Meucci, ha accennato anche alla questione dello stadio di Firenze ed all'ipotesi, avanzata in questi giorni e prospettata in via ipotetica dal sindaco Renzi,  di realizzarne uno nuovo nella zona della Mercafir, a Novoli. A questo proposito, la Signora - appena nominata assessore proprio dallo stesso Renzi -  pur essendosi detta in linea di massima favorevole, si è subito affrettata a dire che andrà a dare un'occhiata, puntualizzando però che bisogna ricordarsi che il piano strutturale del Comune si basa sul principio "volumi zero".   Ma quanti altri edifici  bisognerebbe abbattere per compensare il volume di uno stadio nuovo, edifici che dovrebbero essere quindi "inutili" ? Quindi, uno stadio a "volumi zero" come sarebbe ? Il campo con le righe di gesso, e basta, con gli spettatori ritti sull'erba ai bordi, con l'ombrello aperto quando piove e piccino piccino perché crei poco volume, o meglio ancora solo col K-way per non crearlo per niente, nemmeno provvisorio ? E le porte, creano volume ? Eh ... la politica non si smentisce mai. Qualcuno alla fine lo stadio lo farà (e, c'è da scommetterci, non a "volumi zero", nè a "zero euri"), ma che stadi penati son questi. 

mercoledì 14 settembre 2011

Duri come i sassi

I giudici di Napoli minacciano l'accompagnamento coatto del premier se questi continua a sottrarsi alle convocazioni. Fanno probabilmente il loro dovere (almeno c'è da augurarselo) e trattano Berlusconi come qualsiasi altro cittadino che, chiamato per essere sentito dall'autorità giudiziaria, cerca di eludere l'impegno. In tutto questo forse sfugge che l'accompagnamento coatto, con due Carabinieri che lo prelevano da Palazzo Chigi, lo sollevano sotto le ascelle  e lo scortano a viva forza  a Napoli di fronte al magistrato, mentre lui cerca di divincolarsi sgambettando e con i piedi che scalciano sollevati da terra - questa scenetta possibilmente ripresa dalle telecamere di tutto il mondo - è proprio ciò che Berlusconi desidera per dimostrare quanto i giudici italiani ce l'abbiano con lui. Il premier è lì che aspetta che questi due carabinieri arrivino, alla buonora, visto che i sondaggi mostrano ormai un picco vertiginoso del gradimento e c'è bisogno di risalire. L'eventualità minacciata dalla Procura di Napoli, se attuata sarebbe probabilmente fonte di rinnovati consensi per il Presidente del Consiglio. E' una tattica in uso dal 1994, da diciassette anni. Sappiamo ormai chi è Berlusconi, ma cosa pensare delle capacità intellettive dell'opposizione, che dopo diciassette anni non l'ha ancora capito ? E se questo dubbio facesse nascere l'interrogativo su cosa l'attuale opposizione possa avere a che fare con le iniziative dell'autorità giudiziaria, ci sarebbe da chiedersi cosa abbiano mai fatto -  la magistratura italiana e l'opposizione -  per allontanare da loro un  sospetto del genere. Che solo pochi hanno, ma che non dovrebbe avere nessuno.

lunedì 12 settembre 2011

L'esordio della Fiorentina

Quest'anno il campionato è cominciato dalla seconda giornata, e con qualche sorpresa. Qui ci interessa soprattutto la Fiorentina, che ha esordito battendo il Bologna senza molte discussioni.
Cominciando dalle note negative, sembra ripetersi una certa cattiva abitudine dell'anno scorso, quella di non cogliere l'occasione per chiudere la partita. La Fiorentina si è trovata sul 2-0 all'inizio della ripresa ed ha avuto poi diverse occasioni per portarsi su un irraggiungibile 3-0, sprecandole con Gilardino, con Cerci e con Jovetic. Se nel frattempo Diamanti avesse messo dentro il pallone su punizione che è andato sull'interno del palo, il 2-1 avrebbe riaperto la partita. E si sta parlando di un Bologna che è parso abbastanza assonnato, se si esclude appunto Diamanti.
 Collegata a questa nota negativa, vi è quella della capacità realizzativa della squadra, che sembra poggiare esclusivamente su Gilardino e – insperabilmente – su un Cerci che, se continua così, meriterà le pubbliche scuse dell'intero stadio per i fischi dell'anno scorso. Tolti questi due attaccanti, non si vede chi possa segnare nella Fiorentina. Jovetic – come già aveva mostrato nella metà di campionato 2009-2010 quando ha giocato in coppia con Gilardino al posto di Mutu - ha tante qualità, ma sicuramente non ha quella di metterla dentro. Anche col Bologna, soprattutto nel secondo tempo, ha tirato in porta più volte, ma i suoi tiri – si vede benissimo – non sono quelli del realizzatore, sono sempre un po' molli, imprecisi, poco convinti, non hanno la rabbia esplosiva che dovrebbero avere. Se si aggiunge che, a differenza di tante altre squadre, nessuno dei centrocampisti viola ha attitudini al gol (salvo Vargas, ma purtroppo gioca poco), e men che meno ce l'hanno i difensori (Gamberini potrà fare qualche gol di testa, ma sappiamo quanti può farne in un campionato), viene da pensare che quest'anno segnare sarà un problema. In questo dovrebbe intervenire l'allenatore adottando schemi d'attacco meno prevedibili e con maggior velocità di esecuzione, cercando di ottenere più punizioni dal limite, ed insegnando a tirarle (quasi sempre – anche l'anno scorso - i nostri avversari si rendono pericolosi con i tiri da fermo, sui quali noi tremiamo, mentre quando tocca a noi – e ci accade di rado – non trema mai nessuno).
Le note positive sono quelle di una apparentemente ritrovata serenità, di una maggiore convinzione della squadra – che poi non è molto diversa da quella deludentissima dell'ultimo campionato - dell'insperata buona disposizione di Cerci, del rientro positivo di Jovetic, pur con i limiti realizzativi conosciuti.
Effettivamente, dopo i discorsi fatti dalla società, si poteva temere che mettessero su una squadretta: via Frey, via Mutu, via Montolivo, Vargas e Gilardino, sostituiti con elementi di secondo o terzo piano. Per la verità,  gli elementi di secondo e terzo piano sono arrivati, ma non sono stati ceduti tutti i big, contrariamente ai programmi enunciati e questo non tanto, forse, per la generosità della società, ma perché dopo aver regalato Mutu e Frey, non si potevano certo regalare anche gli altri tre. Che sono stati tenuti forse a malincuore.

domenica 11 settembre 2011

Il perdono

Uno dei pregi che ha il Corriere della Sera è quello di offrire ogni tanto ai propri lettori il pensiero limpido, profondo ed onesto dell'intellettuale e scrittore triestino Claudio Magris. Anche questa settimana, il 9 settembre, Magris ci ha offerto alcune sue riflessioni, dedicate questa volta al perdono. L'argomento è stato affrontato in riguardo al perdono che i familiari o gli amici di persone offese da determinati reati concedono, o sono sollecitati a concedere, all'autore del fatto offensivo che ha colpito la persona cara. L'autore critica giustamente la vacuità con la quale spesso gli organi d'informazione, rivolgendosi a familiari di persone vittime di atti di violenza, chiedono loro “se perdonano”, violando così un'area rigorosamente riservata e personale dell'animo umano. Partendo da questa condivisibile opinione, Magris sviluppa il suo ragionamento sostenendo che solo l'offeso ha il potere di perdonare; solo lui può farlo e non altre persone, sebbene a lui vicine. Questo è - secondo Magris - il perdono.

Casualmente, la settimana in cui Magris ha svolto queste riflessioni si chiude con la domenica  nella quale la Chiesa cattolica rilegge il passo sul perdono del Vangelo di Matteo (“Signore, quante volte dovrò perdonare al mio fratello, se pecca contro di me? Fino a sette volte?” E Gesù gli rispose: “Non ti dico fino a sette, ma fino a settanta volte sette.” Cioè, l'infinito nel linguaggio ebraico). Tornando a Magris, egli dice: il mio perdono potrà esser dato, o non dato, a chi pecca “contro di me”, non a chi pecca contro un mio caro; e così direbbe – stando alla lettera – anche Matteo. Peraltro,  pare proprio da escludere che sia all'interpretazione letterale di questo brano del Vangelo che possa ricondursi la posizione sviluppata da Magris nel suo intervento, anche a prescindere dalle intenzioni dell'autore. Quindi, se ci si ferma qui, l'opinione di Magris lascerebbe un po' interdetti; infatti un atto di violenza, un'uccisione, non offende solo la vittima diretta, offende anche i suoi cari, li offende nei sentimenti e anche nella pura materialità. Chi uccide un mio amico, pecca contro di lui, ma pecca anche contro di me, perché me lo toglie ingiustamente. E quindi anche io sono offeso, ed anche a me sono dirette le parole del Vangelo di Matteo, per l'offesa che anche io ho subito. Del ragionamento di Magris rimarrebbe accettabile solo la prima parte, quella nella quale si pone in luce l'atteggiamento mentale deteriore di chi, per ragioni di “scoop”, ritiene di poter invadere la sfera interiore dell'amico o parente dell'offeso per sapere se “ha perdonato”.

Casualmente, l'intervento di Magris e la lettura domenicale del Vangelo, coincidono con la settimana che si chiude, per l'appunto, l'11 settembre, decimo anniversario di un'offesa tra le più “imperdonabili” della storia. Chissà come oggi il mondo sarebbe diverso, se allora il popolo americano e i suoi reggitori avessero perdonato “settanta volte sette”. O forse non sarebbe molto diverso: tuttavia ci sarebbero state tante offese in meno, e tanti padri, madri, mariti, mogli e figli ancora in vita.

Casualmente, l'intervento di Magris, la lettura domenicale del Vangelo, l'anniversario dell'11 settembre, cadono nella stessa settimana nella quale Cesare Battisti, dal suo dorato rifugio brasiliano, ha sentito la necessità di dirci che lui chiede, sì, perdono, ma non si pente, perché il pentimento è atteggiamento spirituale religioso, e poi perché lui non ha fatto niente di cui pentirsi. Saggiamente il mondo, dopo essersi chiesto di cosa chieda perdono Battisti, se non ha niente di cui pentirsi, lascerà il delirante al  suo febbrile delirio, e concederà al governo brasiliano che gli dato  rifugio di cullarsi nell'autogratificazione di aver perdonato - non avendone titolo - chi l'offesa l'ha recata ad altri. Ma sicuramente non è questa la fattispecie alla quale si riferiva l'evangelista Matteo.

Casualmente l'intervento di Magris è stato pubblicato all'indomani delle citate dichiarazioni; che egli,  nella sua finezza intellettuale, pur senza citarlo abbia voluto riferirsi proprio al caso Battisti ? In questo caso la sua riflessione sarebbe da condividere nella sua interezza. E non casualmente.

venerdì 9 settembre 2011

Buoni propositi

Si legge sulla stampa che Umberto Eco ha smentito di voler riscrivere il suo romanzo "Il nome della rosa". Felici di ciò, si rimane in fiduciosa attesa che voglia riscrivere tutti gli altri.

Zibaldone dal Palazzo

Alla Festa Democratica di Pesaro l'onorevole D'Alema ha ammonito i giovani del PD che premono per guidare il partito: devono prima dimostrare di saper governare “come hanno fatto loro, i vecchi”. Devono saper governare come hanno governato loro ? Mah, forse sono molti gli italiani che auspicano esattamente il contrario.

Dal taglio di un trentina di province, al loro salvataggio, alla ricondanna di tutte quante con legge costituzionale: i sussulti preagonici della manovra riservano sempre delle sorprese. Che non sono finite: pare che, alla fine del Consiglio dei ministri di ieri, Calderoli abbia proposto, al posto delle province, nuovi enti chiamati “province regionali” costituiti dall'unione di più comuni. Così sembra che al posto della attuali 108 province, per risparmiare un po' di soldi avremo circa 200-250 province regionali (o comuni provinciali ? o regioni comunali ?). Si spera di aver capito male.

Anche il ministro Sacconi, come il premier, si è messo a raccontare barzellette spinte, non ad un tavolata fra amici, ma in pubbliche dichiarazioni. Si rimane senza parole, ma - come si vede - questa sorte non tocca mai a chi dovrebbe toccare.

Sui giornali di questi giorni si è letto che l'onorevole D'Alema, ancora lui, debba vendere la sua imbarcazione. La cessione si renderebbe necessaria per far fronte ad esigenze finanziarie come quelle che si presentano in tutte le famiglie: dovendo egli acquistare degli appezzamenti di terreno in Umbria da destinare a vigneti, gioco forza deve sacrificare qualcosa, come quando, ognuno di noi, avendo dovuto cambiare macchina, rinuncia alle ferie. E' veramente un peccato che la famiglia D'Alema sia costretta a questi sacrifici. Basta, basta, è l'ora di finirla che siano sempre i soliti a pagare. Anche per questo l'onorevole ha partecipato, convinto, allo sciopero della CGIL .

Allo specchio

Il conduttore di un Tg regionale è stato recentemente sottoposto a pubblico linciaggio da parte delle associazioni omosessessuali, e non solo, con invito alle dimissioni, per aver espresso giudizi critici sul concorso di bellezza per “trans” di Torre del Lago, e per essersi rifiutato di trasmettere il servizio relativo. Mi sfugge se siano stati sottoposti a linciaggio, da parte delle associazioni eterosessuali, coloro i quali esprimono giudizi critici sul concorso di bellezza per Miss Italia a Montecatini e condannano la RAI che lo trasmette. Eh sì, sembra sempre l'opinione degli altri quella che va contromano.

mercoledì 7 settembre 2011

“Divorzio a Buda” di Sàndor Màrai

(foto ripresa dal Sito dell'Editore)
Divorzio a Buda (1935; Adelphi 2011, traduzione di Laura Sgarioto) ci accompagna sul sentiero di un'esasperata analisi interiore che ritroveremo nel più celebre Le Braci (1942). Per quanto si possa parlare di “azione” nei romanzi di Màrai (un'azione semmai concentrata nei moti d'animo, nei percorsi introspettivi), questa si svolge a Budapest nelle poche ore comprese tra il tardo pomeriggio di un caldo mese di settembre ed il mattino successivo, in un giorno collocato nel lungo periodo della reggenza Horthy, che salda la fine dell'effimera rivoluzione bolscevica del '19 (sulle ceneri dell'impero austro-ungarico) con la deriva filo hitleriana nella quale sarà vissuta dal popolo ungherese la tragedia della seconda guerra mondiale. Sono, quelli, gli anni di un regime fortemente conservatore e conformista che cristallizza ed addormenta la società in schemi legati alla tradizione, in una apparente democrazia parlamentare nella quale i funzionari dello Stato si sentono investiti della funzione di salvaguardia della società. A questo ceto appartiene, per lunga tradizione familiare di giureconsulti, il giovane giudice Kristof Komives, figlio di un alto e riverito magistrato che ha saputo imporre, con la sua autorevolezza, addirittura una “scuola” di stile giurisprudenziale, la “scuola Komives” alla quale il giovani Kristof sente di appartenere, non con orgoglio, ma con la titubanza del discendente che, al cospetto della grandezza dei suoi avi, avverte il dovere di esserne all'altezza. E forse non lo è: giudicare lo intimorisce e dopo un primo periodo dedicato alle cause penali, Kristof Komives, con suo sollievo, viene destinato alle cause di divorzio. “Qui, tutto sommato, si trattava solo di Arcibaldo e Petronilla che non sopportavano di vivere insieme ... Il suo compito era solo quello di prendere atto che due esseri umani non tolleravano la compagnia l'uno dell'altro.” Arcibaldo e Petronilla spesso giungevano di fronte al giudice già d'accordo nella decisione di sciogliere il matrimonio ed il magistrato non aveva nulla da giudicare, doveva solo da mettere un sigillo.
Kristof Komives è felicemente sposato con Hertha. Hanno due bambini e tutto scorre sereno e felice nella loro vita ordinata: un buon appartamento, personale di servizio, un cane non molto simpatico a Kristof, che lo sopporta solo per amore della moglie, un lavoro onorevole e rispettato, qualche viaggio. Il giudice e la moglie si amano teneramente, mai una nube ha percorso il cielo del loro idillio. Cosa potrà mai turbare un così solido quadro familiare ? Niente, niente lo turberà.
Komives è in ufficio, la giornata sta per finire, riguarda le sue carte prima di uscire. Tra poco, lo attende un ricevimento a Buda, uno di quei ricevimenti a metà strada fra il tè e la cena, chiamati con un termine già allora in voga “merencene”. Una forma meno impegnativa di ospitalità: “parsimonia” era ormai il motto dei tempi, anche per il ceto medio. Il giorno successivo Kristof avrà una serie di cause di divorzio, tra le quali, scorrendo i fascicoli, nota quella che riguarda due conoscenti, il Dottor Imre Greiner, suo vecchio compagno del liceo, che da allora aveva rivisto solo qualche volta limitando la conversazione a banali convenevoli, e Anna Fazekas, che aveva fugacemente conosciuto una decina di anni prima, incontrandola poi alcune, rare volte per pura casualità e senza mai approfondirne la conoscenza.
Tutto è regolare, anche quel pomeriggio la vita dei singoli e della collettività scorre ordinata e tranquilla entro i suoi argini; egli è profondamente convinto che stia anche ad uomini come lui, erede della stirpe dei Komives, far sì che non tracìmi.
Come nella società ungherese soffocata nella tradizione e nell'immutabilità, anche in Komives però qualcosa – silente – si muove, contro la sua volontà e la sua stessa percezione. Giunge alla “merencena”, scorge Hertha, viene accolto con benevolenza al tavolo del padrone di casa, dove già si trovano l'anziano magistrato a riposo, del quale è stato prediletto discepolo, ed un altro giureconsulto.
“La sentenza è iniqua” risponde Kristof senza accorgersene, sorpreso di sé stesso, mentre la mente sta cercando un'altra risposta alla richiesta del suo vecchio maestro di commentare una sentenza di quei giorni che aveva suscitato clamore e dietro la cui inaudita severità si celano forse motivazioni politiche. Sì, qualcosa sta accadendo, ma Kristof non capisce cosa.
Rientrando con la moglie – si erano ritrovati alla festa, lui giunto dall'ufficio, lei da casa – scorge le luci accese alla finestra. I bambini erano nervosi prima che lei uscisse, gli riferisce Hertha, forse si sono addormentati tardi. Anche il cane era inquieto. Stava accadendo qualcosa. E una volta a casa, l'indisponente sorpresa. Una persona – a quell'ora ! – lo attende, vuole parlare urgentemente col giudice Komives, come gli riferisce la domestica, che si giustifica: non poteva assolutamente evitare che l'ospite entrasse in casa, che si accomodasse in salotto in attesa del giudice. Si era qualificato come un suo “amico”.
Lo attende il Dottor Imre Greiner, che il giorno dopo deve presentarsi a lui per il divorzio dalla bella moglie Anna Fazekas. No, la causa non ci sarà: Imre informa il giudice che Anna è morta. Anche lui voleva morire – si amavano, ma l'edificio improvvisamente aveva mostrato le crepe che c'erano sempre state. Prima di morire anch'egli, il Dottor Greiner deve però sapere una cosa, una cosa che – incredibilmente - sa solo il giudice Komives e che il giudice Komives non immagina di sapere. Kristof è sconcertato: in dieci anni ha visto la moglie di Greiner due o tre volte, sempre occasionalmente, ed altrettanto è accaduto con Imre. Come può esserci qualcosa che lo metta in relazione con loro, qualcosa di così importante e fondamentale ?
Ed invece proprio lui è il depositario inconsapevole dell'altra metà del sogno di Anna. “L'anima, talvolta, è capace di autentici prodigi. E' in grado di rimuovere totalmente un pensiero, un ricordo, un desiderio ... di estrometterlo, insomma.” Lo estromette, ma lo conserva, pronto a tornare in luce. Dopo un estenuante confronto che dura tutta la notte, Kristof ricorda. Ricorda un evento incorporeo, una sensazione rimossa dal suo pensiero fin dall'origine. Come può pensare che ciò lo metta in contatto con Imre Greiner e Anna Fazekas ed abbia costituito un nucleo segreto che per dieci anni, senza che neppure loro due lo sapessero, ne ha impedito la totale conoscenza reciproca, la completezza coniugale ?
Il Dottor Greiner ottiene la risposta che sapeva di dover ottenere. Albeggia, i due si salutano. L'evento che ha sconvolto il matrimonio di Imre e Anna riguarda anche Kristof ed Hertha, inconsapevoli anch'essi come per lungo tempo lo è stata l'altra coppia. Ma ora Kristof ha ritrovato il filo dimenticato ...
“Va nella camera di Hertha, si ferma sulla porta, guarda la donna addormentata, avvolta nei veli della penombra ... inspira profondamente il profumo familiare che aleggia nella stanza ... 'Conosco i suoi sogni. Tutto ciò non può essere un equivoco, questa donna e questi bambini che dormono ... Dormi, dormi tranquilla'.”.

No, non è accaduto niente. Tutto procede come sempre. Solo un po' di sonno. Sono quasi le otto di mattina, fra poco arriva la donna delle pulizie. Alle undici, le udienze di divorzio. Unica variazione di programma: ce n'è una di meno.

Romanzo tipicamente “maràiano” nell'ossessionata ricerca della perfezione descrittiva dei moti dell'animo e dei meccanismi - quasi fisici - attraverso i quali si sviluppano, Divorzio a Buda anticipa l'impostazione narrativa di Le Braci. Il serrato e quasi irreale confronto dialettico di un'intera notte fra Imre e Kristof – tra le loro fondamentali diversità – mentre Hertha e i bambini placidamente dormono pochi metri più in là, è il cuore del romanzo e guida il lettore su percorsi stimolanti alla scoperta dei processi della mente umana. E poi, una prosa sopraffina, piena, che incede maestosa ed insieme inquieta, come una sinfonia mahleriana.

Sàndor Màrai, scrittore, poeta e giornalista ungherese, nacque l'11 aprile 1900 a Kasse (odierna Kosice, Slovacchia; all'epoca era parte dell'Impero austro-ungarico). Esule in Germania e Francia durante i primi anni della reggenza di Horthy in Ungheria, studiò giornalismo a Lipsia e poi a Francoforte. Nel 1928 tornò in Ungheria e si stabilì a Budapest, dove pubblicò numerosi romanzi in lingua ungherese (I Ribelli, 1930; Le confessioni di un borghese, 1934; Divorzio a Buda, 1935; L'eredità di Eszter, 1939; La recita di Bolzano, 1940; Le Braci, 1942). Nel 1923 sposò una ragazza di origini ebraiche, Lola. Non ebbero figli e nel 1947 adottarono un orfano di guerra, Janos. Fu un oppositore della deriva filo hitleriana dell'Ungheria, ma anche del regime comunista che si insediò al potere dopo la seconda guerra mondiale. Le persecuzioni lo costrinsero ad abbandonare l'Ungheria nel 1948. Rimase in Svizzera fino al 1950 e poi si trasferì in Italia, a Napoli. Successivamente andò a vivere negli Stati Uniti, a San Diego in California e nel 1957 assunse la cittadinanza statunitense. Nel 1968 tornò con la moglie in Italia, a Salerno, e vi rimase fino al 1980 quando, per motivi di cure, tornò negli USA. L'isolamento e la depressione seguiti alla morte della moglie e del figlio adottivo lo portarono al suicidio il 22 febbraio 1989.
Autore lungamente trascurato dalla critica, è stato riscoperto a partire dagli anni '90, dopo la sua morte, e la sua opera è ora considerata tra i capisaldi della letteratura europea del XX secolo. In Italia la casa editrice Adelphi da anni sta pubblicando i più importanti romanzi di Màrai .

6 settembre 2011