lunedì 24 marzo 2014

Caso Moro: i misteri fasulli ed il mistero vero.

Tornano in questi giorni gli echi del caso Moro. Si legge di presunte rivelazioni secondo le quali in via Fani quel fatidico 16 marzo 1978 sarebbe stata discretamente presente una moto con a bordo due agenti dei servizi con lo scopo di guardare le spalle alle Brigate Rosse che dovevano rapire Moro e uccidere la sua scorta.  Da più parti è venuto il commento: "Eh, lo sapevamo".
Si ha l'impressione che vi sia una diffusa illusione di sapere tutto, forse troppo, sul caso Moro. Si può invece credere che si sappia ancora ben poco e che storicamente vadano assunte con la dovuta prudenza le periodiche "rivelazioni" come quella di questi giorni, o come quella della quale si è fatto ingenuamente portavoce Ferdinando Imposimato nel suo libro "I 55 giorni che cambiarono l'Italia", della quale ha fatto giustizia la magistratura con l'incriminazione della sua fonte (si veda, su questo blog, il post del 9.11.2013 "Tecniche d'indagine italiane").
Moro fu rapito ed ucciso dalle Brigate Rosse, che erano appunto rosse come ebbe a rammaricarsi - e non a nascondere - l'indimenticato Sandro Pertini. Le Brigate Rosse operavano in Italia da diversi anni prima di quel 1978 e continuarono poi per qualche altro anno a spargere sangue: non erano quindi un fenomeno posticcio creato ad arte dalla CIA per far fuori Moro. Per il KGB russo il discorso potrebbe essere diverso: le Brigate Rosse venivano addestrate militarmente e strategicamente nei paesi del blocco sovietico.
Quando fu rapito ed ucciso, Moro stava facendo fare i primi concreti passi ad un progetto politico che allarmava USA e URSS in pari misura, o forse più l'URSS degli USA. E qui viene il vero grande mistero storico del caso Moro. Perché il PCI, la sinistra DC, Andreotti e Cossiga - i suoi variegati alleati - furono i più strenui sostenitori della cosiddetta "linea della fermezza" e cioè - fuor di metafora - dell'uccisione di Moro, poiché era anche allora chiaro a tutti che non trattare voleva dire far uccidere il presidente della DC? La motivazione ufficiale fu quella dell'affermazione dell'inflessibilità dello Stato, del suo non piegarsi agli eversori. Curioso che lo Stato Italiano solo in quella occasione abbia ritenuto necessario tenere la schiena dritta. Curioso, e sospetto. Si sapeva che la morte di Moro avrebbe affossato un progetto che indisponeva entrambe le opposte sponde della guerra fredda, ma questo non è certo un mistero, non è certo questo il mistero: non sarebbe stata la prima volta quella di una convergenza su un obbiettivo che avrebbe favorito entrambi. Il vero grande mistero è un altro: perché una larga parte della politica italiana, ben sapendo che il rifiuto della trattativa avrebbe comportato l'esecuzione della pena capitale, volle la morte di Moro? La motivazione della “fermezza dello Stato” non regge: smentita dai fatti in tutti gli altri casi precedenti e successivi. No, quella volta, anche in assenza di una complicità sul suo rapimento, la politica italiana colse lesta l'occasione per sbarazzarsi di Moro. Perché? E' questo che non sappiamo ed è la lacuna storica più grande.

Oggi, mentre ricordiamo con un film il trentennale della morte di Enrico Berlinguer (1984) sarebbe il caso di abbandonare i fatui “lo sapevamo” coi quali accogliamo le periodiche rivelazioni e – partendo dall'analisi storica di quel grand'uomo che fu Berlinguer – cercar di capire perché quegli uomini, dei quali egli fu il leader più duro ed irremovibile, vollero che Moro non tornasse più tra loro. Il film di Veltroni non è ancora uscito, ma pare che non si ponga   questa domanda, la cui risposta sarebbe l'alfa e l'omega della storia d'Italia degli ultimi quaranta anni.   

domenica 23 marzo 2014

In viaggio con don Cuba

Fino al 2 aprile prossimo si può visitare a Firenze la mostra “In viaggio con don Cuba” nella galleria delle Carrozze al piano terreno del palazzo Medici Riccardi (orario 11-19; chiuso il lunedì).
E' un allestimento curato da Lorenzo Bojola che ci fa percorrere lo straordinario viaggio compiuto da don Danilo Cubattoli nel 1954, assieme all'amico Steve (Stefano Ugolini), attraverso tre continenti – Europa, Asia, Africa – su due moto Motom Delfino; quella di Don Cuba accoglie il visitatore proprio all'ingresso.
Don Cuba, ordinato sacerdote nel 1948, era originario di San Donato in Poggio, dove era nato nel 1922 e nel cui cimitero riposa dal dicembre del 2006. Prete sui generis ma mai ribelle, poco adatto alla cura parrocchiale, dove le anime vengono da sole, e sempre “proiettato in fuori” a cercare quelle lontane. Diceva di essersi fatto prete per quelli che avevano a noia i preti. Bisognava quindi andare a cercarli, costoro, nei bar di San Frediano, dove nella miseria del dopoguerra si consumavano in pari dose vino e bestemmie; o tra i ladruncoli di Piazza de' Nerli o di via del Campuccio; o fra i ragazzacci delle bande di Via del Piaggione o di Piazza del Carmine. E poi i carcerati, prima alle Murate, dopo a Sollicciano. Il suo rapporto con San Frediano durato tutta la vita era nato ai tempi del seminario di Cestello, durante la guerra e la fame di quella gente. "S'ha fame a pane": era il grido che Don Cuba raccontava di udire dalle finestre del seminario. Pane, non brioche. "Babbo, bisogna che tu mi porti un po' di filoni di pane, per questi ragazzi". E il babbo, da San Donato in Poggio, glieli portava. Era lui a cercare gli altri, ma chi lo cercava, lo trovava: o in San Frediano, o alla Villa Favorita del Galluzzo dove viveva presso le suore elisabettine, o – d'estate – alla colonia di Molino a Fuoco vicino a Vada. Negli ultimi anni, quando erano ormai entrambi vecchi, Steve, per invitarlo a pranzo, gli metteva un bigliettino sotto il sellino della moto parcheggiata davanti a Sollicciano e lui la domenica si presentava con un carcerato che gli era stato affidato e con semplicità spiegava alla moglie di Steve, nel quieto dopopranzo, che quell'uomo silenzioso e sorridente – che nel frattempo era uscito in giardino a giocare coi figli della coppia - era in carcere per aver ucciso due bambini, anni prima. Cuba era introvabile solo in occasione delle mostre del cinema, sua grande passione perché strumento di dialogo e di avvicinamento. Cuba accompagnò al cimitero di Mercatale Pietro Pacciani e lo benedisse, in un funerale a due – prete e morto, nessun altro aveva osato essere presente. Quel giorno il Cuba aveva veramente raggiunto l'ultimo uomo del mondo. Un viaggio lunghissimo e periglioso ben più di quello in Africa.


Don Danilo Cubattoli (1922 - 2006)

Percorrendo la sala delle Carrozze ci si sofferma sulle varie tappe del viaggio e sugli eventi avventurosi che un'impresa del genere porta con sé. Sì. Tutto molto interessante ed in certi momenti il cuore sale in gola al visitatore che ha la fortuna di avere dei ricordi diretti. Ma una domanda si insinua, indiscreta e fastidiosa. Perché? Cosa spinse Don Cuba a fare quel viaggio che mise in apprensione i suoi amici, il babbo, la sorella, il cardinale Dalla Costa che gli aveva dato il permesso, il sindaco La Pira, la Ghita Vogel, la Fioretta Mazzei, le suorine della Favorita Suor Rina, Suor Germana, Suor Barbarina, Suor Evangelina?
Certo, Cuba voleva celebrare la messa sul Kilimangiaro, in onore dei lavoratori di tutto il mondo. E lo fece. Voleva trovare la tomba del sanfredianino Dante Cellai nella distesa di croci di El Alamein, per portarne una foto alla mamma. E lo fece. Voleva portare i messaggi di La Pira alle varie personalità dei paesi attraversati, e lo fece. Doveva scrivere qualche reportage per il “Giornale del mattino” in cambio di un modesto aiuto per le spese. Mah .. era questo che spinse Cuba a quel viaggio?
Nel fascicolo che illustra la mostra ad un certo punto si leggono queste parole della moglie di Steve: “Se tu avessi chiesto direttamente al Cuba quali furono i motivi di quel viaggio, lui ti avrebbe risposto, semplicemente, che era una bella avventura per conoscere il mondo.” Risposta probabilmente vera; semplice, ma coerente con la semplicità del Cuba, per il quale molte cose erano semplici perché egli andava oltre di esse e sapeva quanto solide e chiare fossero le fondamenta sulle quali poggiavano. La semplicità c'era, ed era vera, ma era un po' più in là di quella che tutti potevano vedere.
Rimuginando su questo interrogativo non risolto da risposte parziali e mai del tutto soddisfacenti, un paio di giorni dopo mi capita l'inatteso dono di leggere sul Corriere della Sera di domenica 9 marzo l'appunto del cardinale di Cuba (o perbacco, le coincidenze!) Jaime Lucas Ortega y Alamino nel quale l'elettore papale riporta le parole pronunciate dal cardinale Jorge Mario Bergoglio il 9 marzo dell'anno scorso, in una delle riunioni che precedettero il conclave. “Nell'Apocalisse Gesù dice che Lui sta sulla soglia e chiama. Evidentemente il testo si riferisce al fatto che Lui sta fuori dalla porta e bussa per entrare ... Però a volte penso che Gesù bussi da dentro, perché lo lasciamo uscire ... Pensando al prossimo Papa: un uomo che, attraverso la contemplazione di Gesù Cristo e l'adorazione di Gesù Cristo aiuti la Chiesa a uscire da sé stessa verso le periferie esistenziali ...”.

Ecco com'è nato quel viaggio: Don Cuba ha bussato da dentro.



Galluzzo - Villa Favorita - La "Motom Delfino" di don Cuba
Luglio 1955











       

sabato 8 marzo 2014

Renzeide, primi atti.

Chi osservi con distacco gli stati d'animo che si agitano nella sinistra italiana dopo l'avvento del governo Renzi può scorgere da un lato coloro i quali celebrano con un po' di boria la conquista del potere: tanto la desideravano da non porsi il problema della collocazione a sinistra o meno del premier secondo le categorie politiche a.M (avanti Matteo). Costoro avvertono il fastidio di quei sassolini nella scarpa che rispondono ai nomi di Alfano ecc., ma istintivamente li rimuovono per non turbare l'estasi del momento magico: la sinistra al potere!
Da un altro lato vi sono coloro i quali vedono quei sassolini come macigni e protestano contro l'usurpazione subita a loro avviso dalla sinistra finalmente vittoriosa ma così timida da subire i condizionamenti dei poteri forti.
Gli uni e gli altri partono da un presupposto comune: la sinistra ha vinto. Si dividono invece su come sia stata utilizzata la vittoria.
Però alle elezioni dello scorso anno il PD (a.M) ha raggiunto appena il 25,4%, cioè meno del PCI nel 1963, mezzo secolo prima (25,6%). La coalizione di centrosinistra è arrivata al 29,5% grazie all'apporto congiunto di Vendola, Bersani, Tabacci e Durnwalder (decisivo con la sua rivoluzionaria Sudtiroler Volkspartei: senza questo apporto il premio di maggioranza l'avrebbe carpito il centrodestra). Con questa “vittoria” il PD ha conseguito circa 150 seggi parlamentari in più rispetto a quanti gliene sarebbero spettati proporzionalmente e grazie a questo regalo, conseguito in virtù di una legge costituzionalmente illegittima, ha egemonizzato il panorama politico; ciò nonostante qualcuno non è neppure del tutto contento e avrebbe voluto di più (la maggioranza assoluta anche al Senato, con meno del 30% dei voti!).
Sarebbe quindi il caso di suggerire al PD (d.M) di valutare con più disincanto la propria reale forza rappresentativa - che alle ultime elezioni di un anno fa si dimostrò modesta - e di usarla non per disegnare a propria immagine le magnifiche sorti e progressive del millennio, ma solo per dare una prima risposta ai più urgenti problemi economico-occupazionali e per approvare una legge elettorale con la quale gli italiani possano, prima possibile, eleggere un Parlamento nei rispetto dei principi costituzionali oggi violati. Un Parlamento che, eletto in modo costituzionalmente corretto, sia anche legittimato - diversamente dall'attuale - ad assumere decisioni di rilevante portata e proiettate nel tempo.
Invece, in presenza della evidente distorsione del principio di rappresentatività democratica, sanzionata ufficialmente dalla sentenza della Corte Costituzionale, si parla di un Governo e di un Parlamento che dovrebbero durare fino al 2018,  utilizzando l'alterata ripartizione dei seggi per assumere decisioni anche rilevanti, come sicuramente sarà necessario in un arco temporale così prolungato.

Dalle pur suggestive narrazioni di Renzi alla Camera ed al Senato pochi sono riusciti a capire quale sia il programma del nuovo Governo. Subito dopo, nelle varie interviste, Renzi ha eluso domande specifiche soprattutto in campo economico, trincerandosi dietro un "aspettate e vedrete" che può stare bene sulle labbra anche di chi non sa - perché ancora non glielo hanno detto - ma vuol far credere di sapere. E' sicuramente presto per dare giudizi, ma non per essere pervasi da dubbi. Nel Regno Unito esiste un governo effettivo ed un "governo-ombra"; anche da noi in passato il centrosinistra ha formato dei propri governi-ombra quando era all'opposizione. In questi casi è chiaro chi governa e chi sta a guardare. Forse qui da noi sta accadendo l'opposto: un "governo-ombra" - dalla faccia poco presentabile - che governa appunto nell'ombra (di ridenti vallate elvetiche, sebbene con ufficio stampa a Roma), ed un governo ufficiale che - in cambio di una scintillante ma innocua play-station con la quale si gioca al governo della Repubblica - ci mette la faccia, dato che, a differenza di quella tenuta nell'ombra, questa è giovane ed accattivante.

Il dubbio di decisioni già assunte “altrove” sembra confermato anche da una curiosa sequenza di dichiarazioni sulle misure economiche. In sede europea, Oli Rehn dopo l'insediamento del governo ha dichiarato: “Padoan sa cosa deve fare”. Pochi giorni dopo, il neo ministro all'Economia Padoan ha rilanciato: ”Il governo sa cosa c'è da fare” e Renzi, alla sua prima uscita a Bruxelles, ha confermato “L'Italia sa perfettamente cosa deve fare”.
Qui tutti lo sanno che cosa c'è da fare, ma non ce lo dicono. Siccome però, alla fine, quello che c'è da fare toccherà farlo a noi, potrebbero avere almeno la compiacenza di dirci cosa?