venerdì 26 ottobre 2012

"Geronimo il cieco e suo fratello" di Arthur Schnitzler(Sellerio Editore Palermo)


Non è facile trovare questo libruccino pubblicato da Sellerio nel 2000 e che reca ancora il prezzo in lire (diecimila), ma vale la pena cercarlo. “Geronimo il cieco e suo fratello” è una  parabola con la quale lo scrittore e drammaturgo austriaco Arthur Schnitzler (Vienna 1862-1931) indaga il rapporto tra due fratelli, soprattutto attraverso il “monologo interiore” di uno dei due - Carlo, il vedente - e mette in luce la forza devastante del sospetto, la disperante impotenza di chi ne è vittima e la facilità con la quale questo germe letale può essere instillato per pura e gratuita perfidia a sconvolgere i rapporti umani, anche i più stabili.
L'azione si svolge nell'arco di un paio di giorni, lungo la strada dello Stelvio che collega l'Italia col Tirolo, il mondo latino con quello tedesco. Sta finendo l'autunno ed arriva il primo freddo, il vento, la pioggia, la neve. In una locanda lungo la strada percorsa dalle carrozze dei viaggiatori, Geronimo il cieco e suo fratello maggiore, Carlo, mendicano qualche soldo dai viandanti. Geronimo ha imparato a suonare la chitarra e canta, Carlo lo assiste e porge il cappello, sotto l'occhio bonario e tollerante dell'oste e della cameriera. Geronimo dipende da Carlo per la sua invalidità; Carlo dipende da Geronimo non per i pochi soldi raggranellati grazie a quest'ultimo, ma perché solo nella dedizione completa ed assoluta al fratello egli trova conforto per il rimorso che lo rode: Geronimo non è cieco dalla nascita, la cecità fu causata dallo stesso Carlo durante un innocente gioco, quando erano ragazzi. Carlo aveva meditato anche il suicidio, per punirsi, ma poi aveva considerato che l'unico modo di risolvere il suo problema era quello di dedicarsi a Geronimo per tutta la vita, supplire in tutto ciò che il fratello non poteva fare, immedesimarsi in lui fin quasi a fargli usare la sua stessa persona per rimediare al male che gli aveva provocato. Questa, la sua missione. Durante quegli anni, la consapevolezza di essere il sostegno indispensabile del fratello e soprattutto quella di avere il suo affetto, ed il perdono, nonostante il danno che gli aveva arrecato, erano stati conforto costante per Carlo - unico, imprescindibile motivo di vita.
Passano i viandanti, si fermano nella locanda, qualcuno prende una camera per la notte. Chi beve, chi mangia e chi gioca. Tutti ascoltano il suono ed il canto di Geronimo e tutti lasciano una moneta nel cappello di Carlo, qualche spicciolo per due poveri mendicanti. Ma ecco che arriva, inatteso, il germe malefico. Un viandante, sceso dalla carrozza, lascia una misera monetina nel cappello di Carlo e, poco dopo, quando questi non sente, sussurra nell'orecchio di Geronimo: “Non farti ingannare, ho dato al tuo compare una moneta da venti franchi”.  Una monetona d'oro.
Carlo si rende subito conto del mutamento intervenuto nel fratello; dapprima non capisce, ma poi Geronimo lo accusa apertamente di approfittare della sua cecità, di ingannarlo sui soldi racimolati, di usarli per sé e per acquistare regali per le donne, anche per la cameriera della locanda. Improvvisamente crolla il mondo precario che Carlo faticosamente si era costruito e nel quale aveva trovato l'unica sua ragione di vita: gli appare subito impossibile convincere il fratello: in che modo può farlo ? Tutto è perduto, anzi – si insinua in lui una sconcertante presa di consapevolezza – forse Geronimo ha sempre pensato che Carlo lo ingannasse, e non lo ha mai perdonato per essere stato la causa della sua cecità. Carlo si è dunque illuso di aver trovato salvezza nel perdono del fratello, senza averlo mai avuto?
Inizia qui il monologo interiore di Carlo, che cerca una via di salvezza pur nella pessimistica convinzione che non servirà a nulla, o che addirittura porterà a peggiori conseguenze. Ad un certo punto crede però di essere riuscito, miracolosamente, nell'impresa, ma il destino inesorabile lo sta attendendo seduto sul ciglio della strada, mentre assieme a Geronimo sta scendendo a valle dopo aver abbandonato in tutta fretta la locanda dove avevano passato la nottata sull'umido giaciglio, per il quale l'oste non aveva voluto neppure essere pagato. Tutto allora pare perduto, ma proprio quella sconfitta mette in azione la “vista interiore” di Geronimo, al quale d'improvviso -  e proprio a causa di quell'evento inatteso lungo il percorso - appare quel che è accaduto.

Breve ed appagante lettura di una ricerca introspettiva che fa pensare a Sigmund Freud, contemporaneo di Schnitzler. Scrivono nella nota introduttiva all'edizione di Sellerio i curatori Benvenuto e Iadicicco: “E tuttavia è noto che tra il fondatore della psicoanalisi e lo scrittore si stabilì un singolare rapporto: basato su reciproci interessi, analoghe curiosità. Ma il loro fu uno scrutarsi a distanza ... Un misto di simpatia e sospetto. Improvvisamente, in occasione del sessantesimo compleanno dello scrittore, Freud si decise a rompere il ghiaccio .... Scriveva il padre della psicoanalisi: 'Desidero farle una confessione, che Lei avrà la bontà ed il riguardo di tenere per sé. Mi sono sempre chiesto con tormento per quale ragione io non abbia mai cercato in tutti questi anni di avvicinarla e di aver un colloquio con lei ... La risposta a questa domanda contiene la confessione che a me sembra troppo intima. Io ritengo di averla evitata per una specie di timore del sosia. ... ogniqualvolta mi sento immerso nelle Sue belle creazioni, ho sempre creduto di riconoscere dietro la loro parvenza poetica gli stessi presupposti, interessi ed esiti che sapevo essere miei ... Così ho avuto l'impressione che Lei attraverso l'intuizione – ma in verità grazie a una raffinata autopercezione – sapesse tutto ciò che io ho scoperto con un faticoso lavoro sugli uomini”.

domenica 21 ottobre 2012

Senescono, ma non se n'escono.


Tempi di elezioni. Un noto deputato non si ricandida, un altro ancor più noto ci sta pensando ed intanto, a sua insaputa, fioccano le firme perché resti. Poi, stillando veleno da ogni pelo dell'incanutito baffo, rimanda ogni decisione al momento in cui si saprà chi avrà vinto le primarie del suo partito: in un caso non si ricandiderà, nell'altro "darà battaglia". Un'altra deputata fa sapere di aver deciso di non ricandidarsi, e dopo qualche giorno viene nominata presidente di un museo. Invece sull'altro fronte, se c'è ancora, non se ne parla neppure di rinunciare ad una candidatura - anche perché da quella parte il candidarsi o meno per molti sarà ininfluente.
Il problema non pare essere l'età o da quante legislature si siede in parlamento. Anche questo ha il suo peso, naturalmente, perché è salutare che l'aria ogni tanto venga rinnovata. Ma se oggi avessimo ancora, vivi e vegeti, un De Gasperi, un Nenni, un La Malfa, un Vanoni, un Saragat, un Pertini, un Terracini,  ci si potrebbe anche sentire rassicurati dal loro perdurare ai vertici della politica. Furono uomini che risollevarono l'Italia dalle macerie: passione e capacità, ed i risultati si videro nell'arco di pochi anni. Invece questi parlamentari “vintage” di destra, di centro e di sinistra, dei quali si parla oggi, hanno trovato un'Italia ricostruita, ci hanno scorrazzato per venti o trent'anni (governo, regioni, province, comuni) ed i risultati anche in questo caso si vedono: l'hanno distrutta. Alla luce dello stato attuale del Paese, la loro esperienza - questa loro lunga esperienza - è veramente una dote sulla quale si può fare affidamento ? Quei signori fanno bene a ritirarsi a vita privata, ma non per la loro senescenza:  perché sono inadatti a governare. Lo hanno già ampiamente dimostrato esercitandosi per alcuni decenni. Vogliamo che continuino, non ci basta ancora ?

Dare e avere


Domenica scorsa la Chiesa ha letto il passo del Vangelo di Marco nel quale Gesù invita un uomo ricco, che gli chiede cosa deve fare per avere la vita eterna, a seguirlo dopo aver donato tutto quel che ha. Gesù lo incalza ad abbandonare i suoi beni terreni e a seguirlo. Ma l'uomo si fa scuro in volto e se va rattristato.
A distanza di sette giorni, il Vangelo di Marco letto oggi nelle chiese parla di Giacomo e Giovanni che chiedono a Gesù di concedere loro il privilegio di sedere in gloria uno alla sua destra ed uno alla sua sinistra, ricevendo in risposta che chi vuole primeggiare sarà schiavo di tutti, e che solo chi si fa servitore sarà grande.
I due passi evangelici sono legati in un mirabile contrappunto. Nel primo, l'immagine che ci viene offerta - raramente accolta, è vero - è quella di chi si spoglia di quel che ha per mettersi nella sequela di Cristo. Nel secondo, al contrario, chi si è messo nella sequela di Cristo chiede, per ciò stesso, una ricompensa: sedere alla sua destra e alla sua sinistra, primeggiare gloriosamente tra gli altri.
Due atteggiamenti opposti: improntato al dare, il primo; all'avere, il secondo.
Se ci guardiamo intorno, vediamo anche oggi tanti uomini che di fronte alla prospettiva di abbandonare tutto quel che hanno si fanno scuri in volto e se ne vanno; non sempre rattristati, è vero, ma quando lo sono resta loro almeno un pensiero fertile intorno al quale riflettere per tutta la vita. Ma vediamo anche tanti uomini che, senza aver abbandonato quel che avevano, si dicono nella sequela di Cristo convinti di aver diritto, per ciò stesso, ad una ricompensa; talora ne sono tanto convinti da prendersela da soli. Basta guardare alla politica, e non solo.

martedì 9 ottobre 2012

Riflessioni sulle primarie


Mentre ci avviciniamo alle elezioni del 2013 il dibattito politico è assorbito dalle primarie del centrosinistra. Vi è un gran fervore ed un crescente interesse, non solo tra gli elettori tradizionali del centrosinistra ma anche tra gli altri. Più se ne parla, più ci si riflette; più ci si riflette, più sono gli interrogativi e le perplessità che vengono alla mente.
Già Eugenio Scalfari, tempo fa in televisione, osservò che finché non si conosce la nuova legge elettorale (maggioritaria oppure proporzionale) non ha senso indire “primarie”. Infatti, secondo il fondatore di Repubblica, se la nuova legge elettorale fosse di tipo proporzionale, non avrebbe diritto di accesso una designazione preventiva da parte di un partito o di una coalizione, poiché la maggioranza parlamentare si potrebbe formare solo dopo i risultati, e quindi anche il nome di chi dovrebbe guidarla non potrebbe che dipendere da quei risultati, tra l'altro in ossequio al dettato costituzionale che attribuisce al Presidente della Repubblica (e non alle primarie) la funzione di designare il Presidente del Consiglio.
L'obiezione di Scalfari è formalmente valida, ma essa a ben vedere sarebbe richiamabile anche con una legge elettorale maggioritaria sul tipo di quella adesso in vigore. E' vero che, in questo caso, vi sarebbe una coalizione formatasi prima delle elezioni, e questa coalizione quindi ben potrebbe accordarsi preventivamente anche sulla persona del premier, ma se i dubbi di Scalfari derivano dalla prerogativa costituzionale riservata al Presidente della Repubblica (vincolato solo dalla scelta di una persona in grado di formare un governo che ottenga la fiducia del Parlamento) il dubbio di legittimità rimane ugualmente. Secondo questa impostazione formalistica, nel nostro Paese le primarie per la designazione del premier sarebbero del tutto ininfluenti a prescindere dal tipo di legge elettorale e potrebbero divenire legittime solo a seguito di una modifica della Costituzione che vincoli il Presidente della Repubblica a nominare capo del governo colui che lo schieramento vincitore abbia designato per quel ruolo prima delle elezioni. Senza questa modifica, le primarie sarebbero ammissibili solo con effetti interni al partito che intende ricorrervi: per eleggere il segretario, ad esempio.
Per salvare le primarie con effetti governativi occorre quindi inquadrare questo utile strumento di democrazia nell'attuale assetto costituzionale: ciò vuol dire dover considerare che l'esito delle primarie per la designazione del premier non è mai vincolante per il Presidente della Repubblica, il quale, nelle usuali consultazioni coi gruppi parlamentari, prenderà semmai nota del fatto che in Parlamento può esservi una maggioranza disposta ad accordare la fiducia ad un governo guidato da quella certa persona, quella cioè che abbia vinto le primarie della coalizione maggioritaria, o quelle del partito predominante in detta coalizione, se le primarie sono state “di partito” e non “di coalizione”.
Vi è poi un secondo aspetto di perplessità legato alle attuali primarie del PD. Quelle in corso sono definite “primarie di coalizione”: il vincitore sarà riconosciuto capo della coalizione e come tale sarà indicato concordemente al Presidente della Repubblica anche come il capo del governo, se la coalizione otterrà la maggioranza parlamentare. Ciò vuol dire anche che tutti i partiti della coalizione possono concorrere alle primarie con propri esponenti, anche più di uno per partito. Dato che le primarie del centrosinistra sono in corso, con candidature già presentate o in via di presentazione da parte di persone appartenenti a partiti diversi (al momento, Bersani, Renzi e Puppato per il PD, Vendola per SEL, Tabacci per API), si dovrebbe dedurre che questi partiti abbiano già stretto un accordo di coalizione, magari assieme ad altri che però non presentino candidati alle primarie. Invece non risulta che sia così. Non si è ancora formata nessuna coalizione di centrosinistra: essa semmai la si può solo desumere risalendo, dai candidati che si sono finora presentati, ai rispettivi partiti di appartenenza. Essa è una coalizione non solo ipotetica, ma ancora aperta: se Fini e Casini si candidassero, la coalizione si estenderebbe anche a FLI e UDC ? E SEL rimarrebbe ? A differenza della prima questione (rapporto tra primarie e legge elettorale) questa non è una questione solo formale, ma anche e soprattutto sostanziale. Il presupposto delle primarie di coalizione è che il vincitore sia il candidato di tutta la coalizione per guidare il nuovo governo e che tutta la coalizione voti la fiducia al governo presieduto da quella persona. Ma se, per ipotesi, in caso di vittoria di Renzi, SEL, già prima delle elezioni, si dichiarasse indisponibile, la coalizione perderebbe subito un pezzo. Ma quel pezzo aveva partecipato alle primarie di coalizione, influendo sul risultato (senza Vendola e senza SEL, ripartendo i voti tra meno candidati, forse Bersani avrebbe potuto prevalere su Renzi). Si dovrebbero allora ripetere le primarie?
Ed infine, se le primarie dovesse vincerle Renzi e Bersani venisse sconfitto, potrebbe il PD presentarsi alle prossime elezioni politiche con un segretario "azzoppato" in modo così clamoroso ? Se Renzi vincesse le primarie, vorrebbe dire che l'elettorato di centrosinistra in maggioranza sposa la sua impostazione; e quindi, come potrebbe l'attuale apparato, che egli combatte, restare al suo posto come se nulla fosse ? Egli vincerebbe su un fronte di rinnovamento del partito, ma sul partito non  avrebbe titolo di mettere parola, perchè il segretario resterebbe Bersani. La maggioranza del centrosinistra, se preferirà Renzi, avrà dichiarato di volersi liberare di D'Alema, Bindi, Marini ecc. ma questi resterebbero tranquillamente al loro posto, dato che Renzi sarà stato designato come possibile premier e non come segretario al posto di Bersani. Forse la via era un'altra. Bisognava mantenere la norma statutaria che prevedeva, in caso di primarie di coalizione per il premierato, che il PD vi partecipasse solo col suo segretario in carica e, in questa prospettiva - considerato che l'elezione di Bersani è ormai "vecchia" - si doveva indire un congresso ed elezioni primarie per il nuovo segretario, che, fresco di investitura, si presentasse alle primarie di coalizione per il governo. Se avesse vinto Bersani, nel partito tutto sarebbe proseguito come prima ed il segretario, in quanto tale, avrebbe poi partecipato alle primarie di coalizione per il suo partito, versimilmente vincendole. Se avesse vinto Renzi, nel partito tutto sarebbe cambiato col nuovo segretario, che, in quanto tale, avrebbe poi partecipato alle primarie di coalizione. 
Il fatto che siano state indette “primarie di coalizione” per il premierato con una coalizione ancora in itinere, e che poi si dibatta più su questioni di partito che di governo, è quindi motivo di seria perplessità, ma – volendo – anche di una conferma: l'approssimazione e l'inadeguatezza della nostra attuale classe politica.