venerdì 2 marzo 2018

Prospettive elettorali


I commenti attorno alle prospettive susseguenti alle elezioni politiche di domenica 4 marzo 2018 trascurano un'eventualità.
I sondaggi e le elaborazioni che si leggono tengono conto solo del voto alla Camera, dove al centrodestra viene sì attribuito un consenso inferiore al 40%, che servirebbe per avere il premio di maggioranza, ma comunque intorno al 35-37%.
Però, rispetto alla Camera, al Senato la fascia di età (18-25) dove probabilmente si guarda molto più ai cinquestelle non vota. Nel 2013 ci fu uno scarto del 2% per i Cinquestelle tra Camera e Senato. Non è quindi da escludere che al Senato il centrodestra, non subendo la “penalizzazione” del voto più giovane, possa raggiungere la fatidica soglia del 40%. In questo caso il centrodestra avrebbe la maggioranza dei seggi del Senato e quindi, essendo necessaria la fiducia di entrambe le camere, diverrebbe impossibile un governo che lo escludesse, anche se alla Camera non esistesse – com'è probabilissimo – nessuna una maggioranza, neppure fra centrosinistra e parti del centrodestra. Anzi, l'esistenza di una maggioranza in una camera potrebbe facilitare aggregazioni attorno a quel nucleo anche nell'altra, probabilmente con effetti dirompenti all'interno del centrosinistra.
Deriva uguale e contraria a quella del 2013, quando il centrosinistra ottenne la maggioranza alla Camera, ma non al Senato. E per fare un governo si ruppero subito entrambe le coalizioni (Lega. Fd'I da una parte, Sel dall'altra, all'opposizione).
Chi vuole le grandi intese dovrebbe quindi augurarsi che una parte abbia la maggioranza in una camera e un'altra parte (o nessuna) nell'altra. Non a caso, a Piazza Pulita ieri sera Verdini, che ama la grandi intese, interrogato su chi voterà ha detto che, avendo affetto per entrambi, voterà per Berlusconi su una scheda (il Senato, immagino) e Renzi sull'altra.

Effetti della bocciatura della revisione costituzionale che conferiva solo alla Camera la funzione della fiducia al governo, anche se andrebbe messa nel conto la diversa legge elettorale che probabilmente avremmo avuto.


sabato 19 agosto 2017

Fiorentina, che ne sarà?


Riprendiamo il blog con un argomento più leggero, la Fiorentina.
Fra i tifosi è in atto un serrato dibattito sulle prospettive della proprietà, che da quindici anni fa capo ai fratelli Della Valle. Sui blog specialistici più "avvertiti", l'argomento è trattato su "Ludwigzaller" all'interno del sito Fiorentina.it e sulla  "Riblogghita" di Pollock.  
Secondo alcuni è in corso una strategia volta a preparare una cessione della società dopo che le prospettive imprenditoriali della Cittadella e dello stadio nuovo hanno segnato un arresto e per il fatto che al momento le prospettive sono assai nebulose. Per questo alcuni leggono il ridimensionamento della potenzialità della squadra, in atto da un paio di anni, come il segno di un "rientrare" di parte dell'investimento totale per riportare il valore della società su livelli più contenuti che facilitino il contatto con possibili acquirenti. 
Del resto recentemente la proprietà, prendendo spunto da alcune vivaci critiche dei tifosi e da un pronunciamento altrettanto critico dello stilista Cavalli, ha seccamente replicato che se qualcuno non è soddisfatto di come è condotta la società, vi è la più ampia disponibilità a farsi da parte. Dopo di che i fratelli Della Valle sono usciti di scena lasciando la società alle cure dei soli dirigenti. 
Di contro, si ribatte che la società continua ad investire  nel settore giovanile ed ha recentemente rinnovato fino al 2020 il contatto con l'anziano Direttore Sportivo Pantaleo Corvino: tutte scelte che smentirebbero le intenzioni di lasciare da parte dell'attuale proprietà.

Io propendo per la prima ipotesi, quella per la quale è in corso la fase propedeutica alla cessione. 
Se si parte dalla Fiorentina di tre anni fa e la si confronta con l’attuale, si può vedere approssimativamente di quanti soldi è rientrata la proprietà e quanto meno costa oggi il “prodotto” per la sostituzione di giocatori destinatari di alti ingaggi con altri che percepiscono compensi ben più ridotti.  Più distintamente emerge il ridimensionamento degli obbiettivi sportivi, che erano rivolti verso le posizioni di vertice la partecipazione alla Champion's League e che recentemente, come è stato fatto trapelare, riguarderebbero il raggiungimento di una semifinale della Coppa Italia, trofeo che la Fiorentina nella sua storia ha vinto per sei volte.    
Se questa operazione fosse stata fatta con un intento di cambiamento e rilancio, non avremmo dei proprietari che, col facile pretesto di due frizzi e due lazzi, tengono verso il popolo viola l’atteggiamento disgustato che ostentano di tenere.
Figurati se a dei boss internazionali degli affari può interessare qualcosa di quel che dicono i tifosi o di quello che un paio di ragazzotti scrivono su uno striscione. Con questa “sensibilità d’animo” non sarebbero mai arrivati dove sono arrivati.
Che poi non si stiano più “divertendo” col calcio hanno anche avuto cura di dirlo pubblicamente.
Per di più, in questi quindici anni hanno speso tantissimi soldi senza ricavare nulla di quello per il quale accettarono di venire. All’epoca, nel loro sangue non scorreva una sola goccia di sangue viola. Diego Della Valle  era stato consigliere di amministrazione dell’Inter, questo è un fatto.
Perché dovrebbero restare ancora qui, dopo ben quindici anni, se ci rimettono dei soldi e non cavano un ragno dal buco che li aveva attratti?
Poi c’è il fatto che questa sessione di mercato, se non fosse sorto l’intoppo imprevisto del Milan che alla fine ha dovuto confessare di non avere i soldi, e neppure le garanzie, per pagare Kalinic, si sarebbe chiusa con un avanzo di una cinquantina di milioni, considerate le operazioni minori in uscita che ancora probabilmente ci saranno. Dato anche l’abbattimento dei costi di gestione per la drastica riduzione del monte ingaggi, questa è una cifra spropositata se dovesse essere vista solo in funzione dell’equilibrio di bilancio.
Allora, se l’intenzione fosse stata quella di “rinnovare per ripartire”, ci sarebbe stata la possibilità di investire ancora una ventina di milioni e metter su una squadra  molto competitiva ed attraente, foriera di futuri entusiasmi, risultati e conseguenti lucrosi incassi.
Con indubbia intelligenza, è stato invece costruito un prodotto “vendibile” sia da un punto di vista qualitativo sia in funzione del più ragionevole prezzo da pretendere, visto il rientro già ottenuto.
Quanto poi alle “giovani pianticelle” che sono state messe a dimora, da un lato si consideri che un bene posto sul mercato deve essere – in proporzione alle dimensioni che gli sono state ritagliate per una migliore vendita – completo di tutte le sue componenti, delle quali per una società di calcio una è anche il settore giovanile. Sotto altro profilo, mi piacerebbe che si riflettesse di più sulle possibili motivazioni di questo fenomeno, comune anche ad altri, per il quale il mercato giovanile è un mercato parallelo che non si incontra mai, se non casualmente, con la prima squadra. L’obbiettivo naturale dovrebbe essere invece quello di investire nei giovani per avere dei giocatori “cresciuti” per la prima squadra senza andare a comprarli a suon di milioni in America o nei Balcani – cresciuti da altri – come invece si preferisce fare nonostante i costosi “giovani talenti” dei quali, dopo un po’, non si sa più nulla, sostituiti da altri che poi seguono la stessa sorte.
Infine, è vero che il 18 agosto la società ha comunicato di aver rinnovato il contratto a Corvino (classe 1949) fino al 2020. Ancora tre anni. Come si può concepire un rinnovo così lungo ad un dirigente da parte di un proprietario che si accingerebbe ad andarsene?
In realtà sono situazioni comuni nelle aziende. Alcune volte è proprio l’imminenza del cambio di proprietà che porta a concedere un riconoscimento che sarebbe stato improbabile in condizioni normali, a procurare cioè – a spese di chi verrà – una salvaguardia per un fedele collaboratore.
A ben vedere, per uno del ’49, quanto più lungo è il rinnovo, tanto più è probabile proprio questa ipotesi.
E poi la Fiorentina ad un suo eventuale futuro proprietario lascerebbe in eredità più di un contratto pluriennale, basta pensare ai giocatori. La continuità aziendale è anch’esso un fattore che pesa per trovare un serio acquirente.
In ogni caso, immagino che anche molti degli stessi più strenui negatori di una eventualità di cessione abbiano qualche dubbio nel pensare ai Della Valle ancora proprietari nel 2020, con un DS ultrasettantenne.
Dovrebbero colare migliaia e migliaia di tonnellate di cemento, per questo. Chissà.
Se si tratta di sperarlo, lo spero anch’io.

domenica 20 settembre 2015

Da chi fuggono i migranti

Qualche settimana fa, rispondendo ad una lettrice su Italians del Corriere della Sera,  Beppe Severgnini, in tema di migranti, ha ricordato che tanti di loro fuggono dalla loro terra perché oppressi da dittatori, definiti "boia barbuti e baffuti capomastri."

Anche noi abbiamo avuto dei boia barbuti e baffuti come capomastri. Ne abbiamo subito le angherie, li abbiamo combattuti e alla fine – dopo aver versato sangue e lacrime - abbiamo fatto a tutti barba e baffi.

Se di fronte ai loro orchi sanguinari i nostri fratelli migranti fuggono, ogni speranza di progresso civile ed economico svanisce. I dittatori sanguinari non sono tali per mero sadismo, ma perché vogliono eliminare ogni sacca di resistenza al loro sfrenato potere. Quale migliore soluzione può esserci, per loro, della dispersione dei potenziali oppositori e resistenti?

Questo tipo di lotta e di emancipazione contro la sopraffazione, per il progresso della propria comunità, richiede indubbiamente un bagaglio culturale che in molti di quei popoli è ancora acerbo – mentre in alcuni di essi è addirittura più antico del nostro. Tuttavia, anche i popoli meno avanzati, oppressi per anni dal nostro colonialismo, hanno conquistato l'indipendenza ormai da più di mezzo secolo. Ancora poco, si dirà. Ma se si continua a fuggire, anziché combattere per il progresso civile ed economico della terra dove sono le nostre radici, la maturazione non arriverà mai: questo è proprio l'obbiettivo di quei boia barbuti.

Chi fugge disperato deve essere accolto; subito dopo si deve verificare la sincerità di quella disperazione; poi bisogna frugarsi in tasca per assicurare un temporaneo modo dignitoso di vivere a chi è arrivato qui con le tasche più vuote delle nostre.

Questa è la strada obbligata. Dobbiamo seguirla per umanità, ma non può essere accettata come la strada normale e definitiva, perché è la strada sbagliata - per tutti.

La strada giusta ciascuno deve tracciarsela col sacrificio, non fuggendo. Aiutare chi fugge è, per noi, un inderogabile atto di carità, ma la giusta soluzione per chi è oppresso dai dittatori o dalla fame è quella di restare e di combattere per il benessere e lo sviluppo della propria terra e della propria comunità. Soprattutto in questo è nostro dovere aiutarli.

mercoledì 3 dicembre 2014

Quirinale

Da qualche settimana sono trapelate notizie sull'intenzione del  Presidente Napolitano di dimettersi ed il Quirinale ha precisato di non poter né confermare né smentire, la qual cosa assomiglia più ad una conferma che ad una smentita. E' quindi partita la solita ridda di voci e di candidature, poco rispettose del silenzio del Presidente, che è in carica e che può rimanerci fino al 2020. Può essere un gioco divertente quello del toto-Quirinale, se non fosse che la serietà della situazione italiana sconsiglia i divertimenti, ai quali ci siamo beotamente dedicati in questi venti anni, tra prendere in giro Berlusconi e difenderlo, tra frizzi e lazzi mentre tutto intorno a noi precipitava.
La prima osservazione che vorrei fare sull'argomento è che un Parlamento come l'attuale, nel quale un partito - il PD - che ottenne alle ultime elezioni (2013) il 25% dei voti dispone oggi di tanti grandi elettori quasi sufficienti per una elezione al quarto turno - un Parlamento così, la cui carenza di rappresentatività è stata proclamata dalla Corte Costituzionale - tutto dovrebbe fare meno che eleggere il rappresentante dell'unità della Nazione per i prossimi sette anni. La prima ed unica cosa che avrebbe dovuto fare sarebbe stata una legge elettorale costituzionalmente corretta e poi sciogliersi. Ma è andata così, e con tutta probabilità nei prossimi mesi, o settimane, questo Parlamento sarà convocato per l'elezione Presidenziale. Per limitare i danni democratici di un così scorretto procedere, e cioè per evitare che venga eletto un esponente di parte grazie all'abnorme presenza in seggi di un determinato schieramento, minoritario nel Paese in base alle ultime elezioni politiche (le uniche da prendere correttamente a riferimento), sarebbe necessario che la scelta cadesse su una personalità in grado di aggregare sul proprio nome una vastissima maggioranza del Parlamento, così da rendere ininfluente l'incostituzionale supremazia in seggi di una parte rispetto alle altre. Credo che un Presidente che fosse eletto a stretta maggioranza da un Parlamento formato come l'attuale dovrebbe avvertire l'esigenza democratica di rifiutare l'elezione, ma vi sono soggetti di bocca tanto  buona che non si farebbero molti scrupoli ad accettare, visto che si rammaricano tutti i giorni per una elezione mancata per 101 voti (mica per uno!), i quali, se non  fossero (provvidenzialmente) mancati, ci avrebbero dato fino al 2020 un Presidente espressione di appena il 30% del Paese. Poiché la Costituzione attribuisce al Presidente, tra le altre, anche la funzione di rappresentare l'unità della Nazione, la scelta dovrebbe cadere su una personalità che unisca e che non divida: il primo sintomo di questa caratteristica è che il prescelto sia espressione di un largo schieramento nel Paese e quindi, in un Parlamento come l'attuale, dovrebbe essere eletto quasi all'unanimità.  Pertanto andrebbero a priori esclusi quei personaggi, sebbene illustri, che sono stati i capifila o le star di riferimento dei due schieramenti che in questi i venti anni si sono contrapposti con tanta scellerata insulsaggine da condurre il Paese qui dove l'hanno condotto. Ecco, questo sarebbe già qualcosa di utile: "loro", no. Hanno già dato e soprattutto, alcuni, hanno già preso (saltando di poltrona in poltrona lungo una quarantina di anni)  ed hanno anche governato personalmente il Paese, per un buon quarto del ventennio, coi risultati che vediamo. Si riposini, adesso, non possiamo accettare altre generosità.  E chi allora? Penso a personalità non direttamente implicate nella melma maleodorante di questo ventennio o che, pur avendovi avuta qualche inevitabile contiguità, non si siano spese troppo ed abbiano sempre mantenuto un atteggiamento di rispetto per tutti. Difficilmente - anche per assicurare un'elezione a larghissima maggioranza - potrà trattarsi di un uomo o una donna vicini al centrodestra (ammesso che lì che ve ne siano con le caratteristiche alle quali ho accennato).
Sul versante del centrosinistra ragionevole e non urlante nelle piazze, forse qualche personalità del genere potrebbe essere trovata, ed un nome potrebbe essere quello del Prof. Sabino Cassese, ex giudice costituzionale; il nome serve per indicare in concreto un profilo, al quale di nomi possono poi corrisponderne - sperabilmente - molti altri, non dimenticando l'opportunità di una alternanza rispetto all'attuale Presidente, ex comunista e laico. Un altro, o altra,  ex PCI mi sembrerebbe veramente fuori luogo. Ma i nostri partiti, che si tengono ben stretto l'incostituzionale bottino carpito col porcellum, potranno essere tanto saggi? Eh, dovranno esserlo: altrimenti rischiano di dover andare di nuovo in pellegrinaggio al Quirinale per supplicare Napolitano di accettare una terza elezione. 

(pubblicato sul blog Le forme della politica il 1.12.2014)

martedì 9 settembre 2014

Sponde vere e sponde false

In questi giorni la stampa ha riportato la notizia secondo la quale un noto armatore ha commissionato alcune navi da crociera di nuova concezione, dal ponte delle quali il viaggiatore avrà l'impressione di vedere il mare dalla terraferma. Il viaggiatore lascerà quindi la terraferma di fronte al mare per imbarcarsi su una nave dalla quale vedrà il mare proprio come lo avrebbe visto dalla terraferma.
Si tratta di una scelta strategica - quella dell'armatore – volta a cogliere al meglio l'evoluzione del mercato, essendo ormai sempre meno i terrestri che, quando decidono di imbarcarsi, lo fanno per andar per mare. Ormai si lascia la costa, ci si imbarca su una nave e si va al largo solo per poter vedere meglio com'è il mare dalla costa. Gli armatori di navi da crociera che non si adegueranno saranno ben presto abbandonati dai clienti ed i loro equipaggi passeranno il loro tempo a guardare il mare dalla terraferma, quella vera, con una consunta pipa di cocco in bocca e il berretto sulle ventitré, commiserati dai più.

Si va verso la società del terzo millennio, quella nella quale l'apparenza supera in valore la realtà e dove, partendo dal reale, ci s'imbarca verso l'irreale per vedere meglio il mondo da una sponda falsa che dia l'impressione di essere quella vera - e tanto più questa falsa impressione si avvicinerà al vero quanto più essa ci soddisferà. Naturalmente il massimo sarebbe che quella agognata falsità fosse vera, ma allora dovremmo ricominciare daccapo. Sarà la nave giusta, quella sulla quale ci stiamo imbarcando? Ci porterà verso un mondo nuovo sì, ma anche apparente. Quello reale lo lasciamo tutto ai vecchi marinai disoccupati rimasti a scrutare il mare dalla terraferma. Quella vera. Sperando che ci facciano un po' di posto, lì sulla panchina in fondo al molo.

giovedì 7 agosto 2014

L'anello Passo della Futa - Monte Gàzzaro - Osteria Bruciata - Passo della Futa

   L'anello del Monte Gàzzaro percorre una frazione - circa 11 Km -  di una  delle tappe giornaliere del "Cammino degli dei", il percorso appenninico che unisce Bologna e Firenze su un itinerario naturalistico di oltre 120 Km e che, sia pure con alcune variazioni, passa per Sasso Marconi, Monzuno, Madonna dei Fornelli, Passo della Futa, Osteria Bruciata, Sant'Agata, San Piero a Sieve, Bivigliano e Fiesole. Un po' diverso era il percorso narrato nel film di Pupi Avati "Una gita scolastica" del 1983, che entrava in Toscana dal versante pistoiese anziché da quello fiorentino, da Porretta anzichè dalla Futa: ma l'avventura è quella. 
   Tornando alla mini versione affrontata il 6 agosto scorso, l'anello del Monte Gàzzaro inizia appunto dal Passo della Futa. In particolare, provenendo in auto da Firenze, occorre prendere la deviazione per Firenzuola prima di arrivare proprio al Passo, e cioè occorre imboccare la strada che poi passa per Cornacchiaia (e quindi non quella che, dopo il Passo, prosegue per la Raticosa attraversando Covigliaio ed ha anch'essa una deviazione per Firenzuola).
   Subito dopo aver imboccato questa strada, sulla destra si trova uno spiazzo di parcheggio con una cabina elettrica. Da lì inizia il sentiero "00" che porta al Monte Gazzaro e al Passo dell'Osteria Bruciata, da dove poi si diramano vari sentieri: per Castro San Martino (di nuovo sulla strada per Firenzuola), per il Passo del Giogo, per Sant'Agata del Mugello, per Marcoiano e per Castellana. Vedremo poi che è proprio quest'ultima direzione (Castellana, sentiero 50) quella che occorre prendere dall'Osteria Bruciata per completare l'anello del Monte Gàzzaro, con una successiva deviazione attraverso il sentiero 12 che risale il pendio fino a tornare sul crinale ove si ritrova il sentiero 00 che a destra va sul Gàzzaro e a sinistra torna alla Futa.
   Il sentiero 00 inizia in salita e, come molti altri tratti del percorso, è caratterizzato da profondi solchi causati dallo scorrimento delle acque piovane ma anche - come attestano le impronte sul fango - da moto da cross. Questi solchi in alcuni punti rendono disagevole il cammino restringendo la zona calpestabile del terreno. Si procede con salite a volte anche ripide, inoltrandoci presto in un fitto bosco. Il sentiero è ampio e ben tenuto. Dopo un po' si incontra sulla sinistra un grande pannello ripetitore, poi alcune discese alternate alla predominante salita, con tratti fuori dal bosco circondati da felci. Dopo circa cinquanta minuti si giunge all'intersecazione col sentiero - con relativa indicazione - che sale da valle e che proviene dall'Osteria Bruciata (raggiungibile quindi anche da qui, se si sceglie di abbandonare la salita al Monte Gàzzaro).
  Si procede con vari saliscendi (più sali che scendi, comunque)  e si comincia a scorgere l'alta antenna del Monte. Quando la si è quasi raggiunta - circa un'ora e mezzo dall'inizio del sentiero -  si vede anche la Croce e la piccola nicchia dove si trova, in una custodia di metallo, il libro dei viandanti. Il punto è molto panoramico, ma - nonostante la giornata sia splendida ed il cielo abbastanza pulito per la pioggia del giorno precedente - non si scorge certo il Mar Tirreno e le isole dell'arcipelago, come alcune guide raccontano.  Non siamo tuttavia proprio sulla vetta del Gàzzaro, che si raggiunge dopo un po' proseguendo lungo lo stesso sentiero che continua a salire, inizialmente in mezzo al prato e poi inoltrandosi nel bosco. La prossima meta è il Passo dell'Osteria Bruciata. Un cartello indica una breve deviazione a destra per un punto panoramico sul versante che guarda la vallata sottostante. La discesa è un po' problematica per la forte pendenza ed il terreno non molto stabile e, in caso di recenti piogge, anche assai scivoloso. Conviene essere muniti di un solido bastone ed aiutarsi tenendosi alle piante che costeggiano il sentiero, che in alcuni punti è corredato di catenelle metalliche per un appiglio in caso di scivolamenti. La discesa appare lunga, più lunga di quanto non sia in realtà, anche per il fastidio causato dalle problematicità del sentiero. Dopo un po' si inizia a scorgere, in basso a destra, un sentiero largo: è il n. 50 proveniente dall'Osteria Bruciata che si dovrà poi percorrere per chiudere l'anello. 
   Dopo circa due ore e mezzo dalla partenza, si giunge finalmente al passo dell'Osteria Bruciata, indicato da un cippo triangolare in pietra in ricordo della vecchia Osteria. La leggenda narra che l'oste era solito uccidere nel sonno i viandanti ai quali dava alloggio per poi derubarli. Quando fu scoperto, la vendetta si realizzò dando fuoco all'osteria (e, si immagina, anche all'oste). Ci si trova su uno spiazzo pianeggiante privo di ogni struttura al di là del cippo e dei cartelli dei sei sentieri che lì si incrociano: in senso orario, quello appena percorso che viene dal Gàzzaro, quello che viene da Castro San Martino e quindi da Firenzuola, quello che viene dal Passo del Giogo, quello che va verso Sant'Agata, quello per Marcoiano e quello per Castellana. Per l'escursione con partenza e ritorno al Passo della Futa, l'Osteria bruciata è il punto ideale per fermarsi a mangiare sul prato. Si riparte prendendo il sentiero 50 per Castellana, molto fangoso in caso di piogge recenti e martoriato dai profondi solchi causati dall'acqua e dalle moto da cross. Dopo circa dieci minuti, sulla destra c'è l'indicazione di una vicina sorgente; poco dopo inizia sulla sinistra il sentiero 48 per Marcoiano, da ignorare. Il sentiero alterna salite, discese e tratti pianeggianti, quasi sempre all'ombra di alti faggi. Si attraversano vari rigagnoli d'acqua. Si ignorano vari accenni di deviazioni sulla destra fino a trovare quella giusta chiaramente segnalata da un cartello che indica la via per il ricongiungimento col sentiero 00 della Futa. La salita sempre in mezzo ai faggi, a tratti molto ripida, è più lunga del previsto (in salita accade spesso...). 
   Si giunge infine ad incrociare il sentiero 00, che si prende a sinistra in direzione del Passo della Futa. Si incontra il pannello già trovato all'andata e si arriva dopo un po' allo spiazzo sulla strada per Firenzuola: in tutto circa 4 ore e 40, escluse le soste.

   Si tratta di un'escursione molto bella ed alla portata anche di chi non è un camminatore esperto, anche se il tratto in discesa dal Gàzzaro all'Osteria Bruciata richiede moltissima attenzione. Si attraversa un paesaggio naturalistico dal quale si tengono ancora lontani i segni della vita moderna di tutti i giorni, con le sole eccezioni del grande ripetitore rettangolare e delle impronte delle moto che danneggiano il sentiero con profonde incisioni. In più punti la vista spazia ora sul versante del Mugello, nel quale domina la vista dall'alto del Lago di Bilancino, ora sulla conca di Firenzuola e verso la cerchia di monti che la cingono a settentrione. Sarebbe interessante poter conoscere il nome di quelle lontane giogaie che si susseguono limpide di fronte a noi e che restano invece anonime, ma questo forse - a ben pensarci - aumenta l'arcana suggestione che avvolge l'affaticato ma soddisfatto escursionista.

   Capita di imbattersi nelle allegre brigate di ragazzi che percorrono il "sentiero degli dei" e, se ci si ferma a scambiare con loro due chiacchiere, magari durante lo spuntino all'Osteria Bruciata, può capitare di rimanere sorpresi dalla riflessione che loro spontaneamente ti fanno sul contrasto tra i cinque-sei giorni che hanno deciso di impiegare per attraversare a piedi l'Appennino ed i trentacinque minuti che invece servono per coprire la stessa distanza grazie all'Alta Velocità sulla nuova linea ferroviaria Bologna-Firenze. Soluzioni diverse per esigenze diverse, ma è bello constatare la sopravvivenza di un desiderio di immersione nel territorio per viverlo, pagando generosamente il prezzo di una fatica che alla fine cessa di essere un corrispettivo per un bene desiderato, per confondersi col bene stesso aumentandolo di valore.

venerdì 1 agosto 2014

"La compagnia di Ramazzotto" di Carlo Flamigni - Ed Sellerio


    Chi non sia un cultore di storia scoprirà cosa sia la compagnia di Ramazzotto solo verso fine del romanzo, dove troverà anche una dotta citazione dalla Storia d'Italia di Francesco Guicciardini;  questo curioso riferimento è l'elemento più sapido dell'intero romanzo, al quale quindi giustamente dà il titolo. La romagnola compagnia di Ramazzotto di Flamigni è quella composta dai vari personaggi “buoni”, una specie di armata brancaleone un po' scalcagnata e incerottata; in quella storica, rievocata dal Guicciardini, uno era cieco, uno era zoppo, e quello davanti, che teneva lo scudo ("scud") morì per via d'uno sputo ("spud").
   I personaggi di questa vicenda ambientata in Romagna, par di capire tra Cesena, Forlì e Rimini con qualche necessaria puntata nell'emiliana Bologna sede universitaria, sono tutti molto improbabili. Primo Casadei, il protagonista, ha una moglie cinese - che parla romagnolo stretto e che della cucina locale è una maga – e due gemelline; la famigliola vive ospite in casa di un anziano amico, chiamato Proverbio per la sua tendenza ad esprimersi coi motti della vecchia saggezza romagnola. Con loro vive anche un certo Pavolone, giovane solitario e bonario che la natura ha beneficiato solo nel fisico possente, con un solo punto debole causato da un'improvvida liposuzione. Perché queste sei persone vivano insieme non è dato sapere, se si eccettua il vincolo di amicizia tra Primo e Proverbio, padrone di casa.
   La vicenda trae origine da un delitto: l'uccisione di un docente universitario – il bravo, buono e di sinistra Prof. Stelio Benelli, ordinario di chimica – nell'ambito di un torbido intrigo sorto attorno alla distribuzione di alcune cattedre e  all'elezione del nuovo Rettore, attorno al quale – a sua volta – ruoterebbe un progetto speculativo per la realizzazione sulla costa romagnola di una sede distaccata dell'Università. Benelli, nonostante avesse ricevuto varie sollecitazioni, non corre per il prestigioso incarico, ma appoggia uno dei due candidati (ovviamente quello buono). 
   Nella rossa Romagna, questa speculazione per un intervento pubblico su aree acquistate appositamente dai comuni da parte di una vasta congrega di malavitosi vicini alla destra (come lo è uno dei due candidati a Rettore, che è ovviamente della partita), avverrebbe ovviamente all'insaputa delle amministrazioni locali, che essendo rosse non possono che essere aliene da ogni contaminazione affaristica - ma d'altronde deve esser così, altrimenti il romanzo lo si sarebbe dovuto ambientare in altra parte d'Italia. L'autore deve avvertire l'inverosimiglianza della rappresentazione, ed infatti ad un certo punto fa intervenire un assessore che sull'argomento si addentra in un oscuro e sofferto discorso dal quale gli interlocutori - ma anche molti lettori - non ci capiscono molto, se non che la politica che governa quelle terre è ovviamente candida (o meglio rossa) come un giglio ... pur non essendolo (e non essendolo, ovviamente, con suo grande dolore).  Cioè, ci vuol dire Flamigni (che a quella politica attiva non deve essere estraneo), candida lo è per definizione, e tanto deve bastare anche al buon Balilla, vecchio compagno d'altri tempi, che assiste sconcertato alle spiegazioni del compagno assessore. 
   Parte quindi un'indagine parallela da parte della compagnia di Ramazzotto - Primo Casadei, Proverbio, Pavolone ecc. - con la partecipazione straordinaria di Mirta, vedova del povero Stelio Benelli ed ex fiamma di Primo. Quest'ultimo, pur arruolato, nell'esercito dei buoni, ha qualche sassolino nella scarpa per le sue giovanili frequentazioni nella manovalanza a favore di un malavitoso napoletano che ha un proprio centro d'affari anche nella zona romagnola. Tuttavia, cessato questo pericoloso impiego, Primo è diventato uno scrittore affermato ed un appassionato di storia. A volte accade, perché no.
   Ovviamente, dopo alcuni ammazzamenti e varie ammaccature, il caso viene risolto, ma il finale lascia intravedere come il Casadei non abbia abbandonato del tutto alcune inquietanti abitudini risalenti alla sua prima vita.

   Nel romanzo si fa largo uso di espressioni dialettali in romagnolo stretto, quasi sempre tradotte; ed è un bene perché a differenza del siciliano di Camilleri – comprensibile anche con un minimo sforzo - il romagnolo di Flamigni sarebbe, per chi non è romagnolo, assolutamente incomprensibile. Tradotte, e quindi rilette conoscendone il significato, quelle espressioni diventano invece chiarissime e gustosissime, come gustoso è sentir parlare un romagnolo. Deve dipender anche dalla diversa attitudine delle due parlate ad essere espresse per scritto. O anche dal fatto - che forse è la stessa cosa - che il siciliano è più vicino all'italiano del romagnolo. 

   "La compagnia di Ramazzotto" è un romanzo che non fa economie di banalità e di situazioni improbabili; l'unica cosa non improbabile è la buona qualità di scrittura dell'autore, che - pur essendo professore di Ginecologia ed Ostetricia all'Università di Bologna - sa condurre bene la danza letteraria lungo le sue duecentocinquanta pagine, le quali, altrimenti, avrebbero in molti punti, e anche nel loro complesso, rasentato il ridicolo - che è qualcosa di diverso da quel sottile humour ironico che  talora valorizza testi di questo genere.  

   Se il genere “noir” si differenzia dal giallo per il fatto che in esso sono i personaggi ed i loro risvolti, più che la trama e l'indagine, ad essere in prima linea, “La compagnia di Ramazzotto” di Carlo Flamigni dovrebbe essere catalogato tra i “noir”, dato che qui la trama a volte sfugge, passa attraverso forzature e banalità, percorre sentieri precari e improbabili. Però, a ben vedere, assai improbabili sono anche i personaggi, e quindi conviene lasciar perdere l'esatta collocazione del romanzo nell'uno o nell'altro genere, anche perché - ove la confusione non bastasse - gli elementi un po' comici (e non sempre volontari...) contribuiscono a renderla oltremodo difficoltosa.