martedì 24 giugno 2014

Il "nuovo Senato" fa tornare alla ribalta l'immunità parlamentare

La recente ipotesi di accordo sulla riforma del Senato ha riportato alla ribalta il tema della immunità parlamentare. 
L'immunità fu prevista dalla Costituzione per porre un argine alle iniziative giudiziarie ai danni di parlamentari scomodi per il potere, come era accaduto spesso durante il ventennio fascista.
L'immunità ha un senso quando vi sia una contaminazione reciproca tra il potere giudiziario e parti della politica.
L'immunità è invece un privilegio ingiustificato quando il potere giudiziario ha fama di indipendenza, tanto che solo pochi faziosi possano seriamente sostenere che un'azione penale contro un parlamentare sia originata da lotta politica.
A questi fini, che l'ordine giudiziario si atteggi nel primo o nel secondo modo non è solo un dato oggettivo, ma dipende dalla credibilità che esso si è meritato nell'opinione dei cittadini: questa credibilità, che ovviamente non può essere totale, deve essere comunque vasta e diffusa nelle varie componenti della società senza distinzione di appartenenza partitica.
Si potrebbe seriamente riflettere in quale situazione ci troviamo oggi, e poi decidere se l'immunità - purtroppo - serva oppure sia - per fortuna - un inaccettabile privilegio.
Peraltro la credibilità dell'ordine giudiziario può essere messa in dubbio non tanto dall'esercizio dell'azione penale, fondata, contro alcuni presunti colpevoli, quanto anche dall'omissione verso altri anch'essi fondatamente presunti colpevoli. Forse è questo il problema più attuale e spinoso: che vi sia cioè in Italia, per alcuni, una immunità parlamentare nascosta e sotterranea, che, proprio per questo, è difficile abolire per legge. 

mercoledì 4 giugno 2014

I moderati italiani e le elezioni

Le recenti elezioni europee in Italia hanno indotto molti commentatori a celebrare - assieme al successo renziano - la definitiva scomparsa dei "moderati", attestata da quello 0,7% del partito montiano e del risultato modesto ottenuto dal neo partito di Alfano.
Ma chi sono - o sono stati ... - i moderati? 
 E' difficile definire i moderati italiani in politica.
In maniera un po' brutale si potrebbero definire moderati coloro i quali - in Italia - hanno in ùggia la sinistra per la sua vuota retorica e per il velleitarismo un po' minaccioso che colora l'aspirazione alla giustizia sociale. Anche i moderati sono solidali - non molti per la verità - ma vedono la strada verso la giustizia sociale come una strada non punitiva. Non vogliono, i moderati, redistribuire la ricchezza togliendone un po' a qualcuno per darla ad altri; vorrebbero crearne di più, così che ce ne fosse per tutti. Non necessariamente nella stessa misura, ma sufficiente per tutti. Sono un po' restii a cedere la loro, di ricchezza (quando ce l'hanno) ma non aspirano ad ingigantire le differenze sociali, vorrebbero anzi ridurle, per stare più tranquilli - loro massima aspirazione. 
I moderati italiani hanno effettivamente meno remore verso la destra ed a volte la votano: quando lo ritengono indispensabile per non  far vincere la sinistra, della quale hanno sempre diffidato senza mai essersi dovuti rammaricare di averlo fatto. Anzi: nel 1948 impedirono un bel guaio; furono degli eroi. E, forse esagerando nel timore per la sinistra, nel 1994 ripeterono la stessa operazione riuscendo in exstremis a tener fuori dal governo la sinistra guidata da Occhetto che pareva non avere più rivali.  Scese in campo Berlusconi, e vinse; ma  se nel 1994 fosse sceso in campo, contro la sinistra, Paolino Paperino da Paperopoli, avrebbe vinto lui. Ci sono riusciti sempre, a ben vedere, a non  far vincere la sinistra: con la DC per quaranta anni, con Berlusconi per venti, l'anno scorso con Grillo. 
Ma anche la destra a volte li spaventa: quando è troppo oltranzista. In questi casi cercano altre nicchie. 
I moderati italiani sono da venti anni senza casa e devono vivere in casa d'altri: negli ultimi anni, un po' nel PD, un po' con Berlusconi, un po' nei vari partitini di centro. Non molti nel PD, quando imperava la Ditta di Bersani e predecessori. I moderati italiani possono anche votare PD, ma senza trasporto e - soprattutto - non è per il fatto di votarlo che diventano di sinistra. Errore gravissimo il crederlo.
Bersani, l'anno scorso, sottovalutò i moderati e si alleò con Vendola per un "governo di cambiamento". Niente può insospettire di più i moderati italiani.  Così Bersani prese il 25% e perse elezioni già vinte, come Occhetto nel 1994.
Renzi quest'anno - che i moderati li conosce bene -  sapeva dove erano, è andato a cercarli con la faccia giusta per vincere la loro diffidenza e li ha trovati. Anziché il 25% ha avuto il 41%.
Ma è lui che è andato da loro, non loro da lui. Loro, non sono diventati di sinistra (figurarsi!): son rimasti quel che sono sempre stati. Moderati. Non è stata la montagna ad andare a Maometto, ma Maometto (il PD di Renzi) ad andare alla montagna. Finché Maometto resta lì sulla montagna, tutti insieme fanno il 41% o anche più. Ma se Maometto torna a casa, la montagna non lo segue, rimane dove è sempre stata, magari un po' dispersa, ma sempre sufficiente ad impedire che la sinistra vinca le elezioni in Italia.
I moderati italiani sono in realtà lo zoccolo duro dell'elettorato. Da quando non hanno più un loro partito, accettano di essere ospitati ora qui e ora là e, nell'imbarazzo di essere senza fissa dimora, fanno finta di  non esserci. Ma vincono sempre loro.

lunedì 24 marzo 2014

Caso Moro: i misteri fasulli ed il mistero vero.

Tornano in questi giorni gli echi del caso Moro. Si legge di presunte rivelazioni secondo le quali in via Fani quel fatidico 16 marzo 1978 sarebbe stata discretamente presente una moto con a bordo due agenti dei servizi con lo scopo di guardare le spalle alle Brigate Rosse che dovevano rapire Moro e uccidere la sua scorta.  Da più parti è venuto il commento: "Eh, lo sapevamo".
Si ha l'impressione che vi sia una diffusa illusione di sapere tutto, forse troppo, sul caso Moro. Si può invece credere che si sappia ancora ben poco e che storicamente vadano assunte con la dovuta prudenza le periodiche "rivelazioni" come quella di questi giorni, o come quella della quale si è fatto ingenuamente portavoce Ferdinando Imposimato nel suo libro "I 55 giorni che cambiarono l'Italia", della quale ha fatto giustizia la magistratura con l'incriminazione della sua fonte (si veda, su questo blog, il post del 9.11.2013 "Tecniche d'indagine italiane").
Moro fu rapito ed ucciso dalle Brigate Rosse, che erano appunto rosse come ebbe a rammaricarsi - e non a nascondere - l'indimenticato Sandro Pertini. Le Brigate Rosse operavano in Italia da diversi anni prima di quel 1978 e continuarono poi per qualche altro anno a spargere sangue: non erano quindi un fenomeno posticcio creato ad arte dalla CIA per far fuori Moro. Per il KGB russo il discorso potrebbe essere diverso: le Brigate Rosse venivano addestrate militarmente e strategicamente nei paesi del blocco sovietico.
Quando fu rapito ed ucciso, Moro stava facendo fare i primi concreti passi ad un progetto politico che allarmava USA e URSS in pari misura, o forse più l'URSS degli USA. E qui viene il vero grande mistero storico del caso Moro. Perché il PCI, la sinistra DC, Andreotti e Cossiga - i suoi variegati alleati - furono i più strenui sostenitori della cosiddetta "linea della fermezza" e cioè - fuor di metafora - dell'uccisione di Moro, poiché era anche allora chiaro a tutti che non trattare voleva dire far uccidere il presidente della DC? La motivazione ufficiale fu quella dell'affermazione dell'inflessibilità dello Stato, del suo non piegarsi agli eversori. Curioso che lo Stato Italiano solo in quella occasione abbia ritenuto necessario tenere la schiena dritta. Curioso, e sospetto. Si sapeva che la morte di Moro avrebbe affossato un progetto che indisponeva entrambe le opposte sponde della guerra fredda, ma questo non è certo un mistero, non è certo questo il mistero: non sarebbe stata la prima volta quella di una convergenza su un obbiettivo che avrebbe favorito entrambi. Il vero grande mistero è un altro: perché una larga parte della politica italiana, ben sapendo che il rifiuto della trattativa avrebbe comportato l'esecuzione della pena capitale, volle la morte di Moro? La motivazione della “fermezza dello Stato” non regge: smentita dai fatti in tutti gli altri casi precedenti e successivi. No, quella volta, anche in assenza di una complicità sul suo rapimento, la politica italiana colse lesta l'occasione per sbarazzarsi di Moro. Perché? E' questo che non sappiamo ed è la lacuna storica più grande.

Oggi, mentre ricordiamo con un film il trentennale della morte di Enrico Berlinguer (1984) sarebbe il caso di abbandonare i fatui “lo sapevamo” coi quali accogliamo le periodiche rivelazioni e – partendo dall'analisi storica di quel grand'uomo che fu Berlinguer – cercar di capire perché quegli uomini, dei quali egli fu il leader più duro ed irremovibile, vollero che Moro non tornasse più tra loro. Il film di Veltroni non è ancora uscito, ma pare che non si ponga   questa domanda, la cui risposta sarebbe l'alfa e l'omega della storia d'Italia degli ultimi quaranta anni.   

domenica 23 marzo 2014

In viaggio con don Cuba

Fino al 2 aprile prossimo si può visitare a Firenze la mostra “In viaggio con don Cuba” nella galleria delle Carrozze al piano terreno del palazzo Medici Riccardi (orario 11-19; chiuso il lunedì).
E' un allestimento curato da Lorenzo Bojola che ci fa percorrere lo straordinario viaggio compiuto da don Danilo Cubattoli nel 1954, assieme all'amico Steve (Stefano Ugolini), attraverso tre continenti – Europa, Asia, Africa – su due moto Motom Delfino; quella di Don Cuba accoglie il visitatore proprio all'ingresso.
Don Cuba, ordinato sacerdote nel 1948, era originario di San Donato in Poggio, dove era nato nel 1922 e nel cui cimitero riposa dal dicembre del 2006. Prete sui generis ma mai ribelle, poco adatto alla cura parrocchiale, dove le anime vengono da sole, e sempre “proiettato in fuori” a cercare quelle lontane. Diceva di essersi fatto prete per quelli che avevano a noia i preti. Bisognava quindi andare a cercarli, costoro, nei bar di San Frediano, dove nella miseria del dopoguerra si consumavano in pari dose vino e bestemmie; o tra i ladruncoli di Piazza de' Nerli o di via del Campuccio; o fra i ragazzacci delle bande di Via del Piaggione o di Piazza del Carmine. E poi i carcerati, prima alle Murate, dopo a Sollicciano. Il suo rapporto con San Frediano durato tutta la vita era nato ai tempi del seminario di Cestello, durante la guerra e la fame di quella gente. "S'ha fame a pane": era il grido che Don Cuba raccontava di udire dalle finestre del seminario. Pane, non brioche. "Babbo, bisogna che tu mi porti un po' di filoni di pane, per questi ragazzi". E il babbo, da San Donato in Poggio, glieli portava. Era lui a cercare gli altri, ma chi lo cercava, lo trovava: o in San Frediano, o alla Villa Favorita del Galluzzo dove viveva presso le suore elisabettine, o – d'estate – alla colonia di Molino a Fuoco vicino a Vada. Negli ultimi anni, quando erano ormai entrambi vecchi, Steve, per invitarlo a pranzo, gli metteva un bigliettino sotto il sellino della moto parcheggiata davanti a Sollicciano e lui la domenica si presentava con un carcerato che gli era stato affidato e con semplicità spiegava alla moglie di Steve, nel quieto dopopranzo, che quell'uomo silenzioso e sorridente – che nel frattempo era uscito in giardino a giocare coi figli della coppia - era in carcere per aver ucciso due bambini, anni prima. Cuba era introvabile solo in occasione delle mostre del cinema, sua grande passione perché strumento di dialogo e di avvicinamento. Cuba accompagnò al cimitero di Mercatale Pietro Pacciani e lo benedisse, in un funerale a due – prete e morto, nessun altro aveva osato essere presente. Quel giorno il Cuba aveva veramente raggiunto l'ultimo uomo del mondo. Un viaggio lunghissimo e periglioso ben più di quello in Africa.


Don Danilo Cubattoli (1922 - 2006)

Percorrendo la sala delle Carrozze ci si sofferma sulle varie tappe del viaggio e sugli eventi avventurosi che un'impresa del genere porta con sé. Sì. Tutto molto interessante ed in certi momenti il cuore sale in gola al visitatore che ha la fortuna di avere dei ricordi diretti. Ma una domanda si insinua, indiscreta e fastidiosa. Perché? Cosa spinse Don Cuba a fare quel viaggio che mise in apprensione i suoi amici, il babbo, la sorella, il cardinale Dalla Costa che gli aveva dato il permesso, il sindaco La Pira, la Ghita Vogel, la Fioretta Mazzei, le suorine della Favorita Suor Rina, Suor Germana, Suor Barbarina, Suor Evangelina?
Certo, Cuba voleva celebrare la messa sul Kilimangiaro, in onore dei lavoratori di tutto il mondo. E lo fece. Voleva trovare la tomba del sanfredianino Dante Cellai nella distesa di croci di El Alamein, per portarne una foto alla mamma. E lo fece. Voleva portare i messaggi di La Pira alle varie personalità dei paesi attraversati, e lo fece. Doveva scrivere qualche reportage per il “Giornale del mattino” in cambio di un modesto aiuto per le spese. Mah .. era questo che spinse Cuba a quel viaggio?
Nel fascicolo che illustra la mostra ad un certo punto si leggono queste parole della moglie di Steve: “Se tu avessi chiesto direttamente al Cuba quali furono i motivi di quel viaggio, lui ti avrebbe risposto, semplicemente, che era una bella avventura per conoscere il mondo.” Risposta probabilmente vera; semplice, ma coerente con la semplicità del Cuba, per il quale molte cose erano semplici perché egli andava oltre di esse e sapeva quanto solide e chiare fossero le fondamenta sulle quali poggiavano. La semplicità c'era, ed era vera, ma era un po' più in là di quella che tutti potevano vedere.
Rimuginando su questo interrogativo non risolto da risposte parziali e mai del tutto soddisfacenti, un paio di giorni dopo mi capita l'inatteso dono di leggere sul Corriere della Sera di domenica 9 marzo l'appunto del cardinale di Cuba (o perbacco, le coincidenze!) Jaime Lucas Ortega y Alamino nel quale l'elettore papale riporta le parole pronunciate dal cardinale Jorge Mario Bergoglio il 9 marzo dell'anno scorso, in una delle riunioni che precedettero il conclave. “Nell'Apocalisse Gesù dice che Lui sta sulla soglia e chiama. Evidentemente il testo si riferisce al fatto che Lui sta fuori dalla porta e bussa per entrare ... Però a volte penso che Gesù bussi da dentro, perché lo lasciamo uscire ... Pensando al prossimo Papa: un uomo che, attraverso la contemplazione di Gesù Cristo e l'adorazione di Gesù Cristo aiuti la Chiesa a uscire da sé stessa verso le periferie esistenziali ...”.

Ecco com'è nato quel viaggio: Don Cuba ha bussato da dentro.



Galluzzo - Villa Favorita - La "Motom Delfino" di don Cuba
Luglio 1955











       

sabato 8 marzo 2014

Renzeide, primi atti.

Chi osservi con distacco gli stati d'animo che si agitano nella sinistra italiana dopo l'avvento del governo Renzi può scorgere da un lato coloro i quali celebrano con un po' di boria la conquista del potere: tanto la desideravano da non porsi il problema della collocazione a sinistra o meno del premier secondo le categorie politiche a.M (avanti Matteo). Costoro avvertono il fastidio di quei sassolini nella scarpa che rispondono ai nomi di Alfano ecc., ma istintivamente li rimuovono per non turbare l'estasi del momento magico: la sinistra al potere!
Da un altro lato vi sono coloro i quali vedono quei sassolini come macigni e protestano contro l'usurpazione subita a loro avviso dalla sinistra finalmente vittoriosa ma così timida da subire i condizionamenti dei poteri forti.
Gli uni e gli altri partono da un presupposto comune: la sinistra ha vinto. Si dividono invece su come sia stata utilizzata la vittoria.
Però alle elezioni dello scorso anno il PD (a.M) ha raggiunto appena il 25,4%, cioè meno del PCI nel 1963, mezzo secolo prima (25,6%). La coalizione di centrosinistra è arrivata al 29,5% grazie all'apporto congiunto di Vendola, Bersani, Tabacci e Durnwalder (decisivo con la sua rivoluzionaria Sudtiroler Volkspartei: senza questo apporto il premio di maggioranza l'avrebbe carpito il centrodestra). Con questa “vittoria” il PD ha conseguito circa 150 seggi parlamentari in più rispetto a quanti gliene sarebbero spettati proporzionalmente e grazie a questo regalo, conseguito in virtù di una legge costituzionalmente illegittima, ha egemonizzato il panorama politico; ciò nonostante qualcuno non è neppure del tutto contento e avrebbe voluto di più (la maggioranza assoluta anche al Senato, con meno del 30% dei voti!).
Sarebbe quindi il caso di suggerire al PD (d.M) di valutare con più disincanto la propria reale forza rappresentativa - che alle ultime elezioni di un anno fa si dimostrò modesta - e di usarla non per disegnare a propria immagine le magnifiche sorti e progressive del millennio, ma solo per dare una prima risposta ai più urgenti problemi economico-occupazionali e per approvare una legge elettorale con la quale gli italiani possano, prima possibile, eleggere un Parlamento nei rispetto dei principi costituzionali oggi violati. Un Parlamento che, eletto in modo costituzionalmente corretto, sia anche legittimato - diversamente dall'attuale - ad assumere decisioni di rilevante portata e proiettate nel tempo.
Invece, in presenza della evidente distorsione del principio di rappresentatività democratica, sanzionata ufficialmente dalla sentenza della Corte Costituzionale, si parla di un Governo e di un Parlamento che dovrebbero durare fino al 2018,  utilizzando l'alterata ripartizione dei seggi per assumere decisioni anche rilevanti, come sicuramente sarà necessario in un arco temporale così prolungato.

Dalle pur suggestive narrazioni di Renzi alla Camera ed al Senato pochi sono riusciti a capire quale sia il programma del nuovo Governo. Subito dopo, nelle varie interviste, Renzi ha eluso domande specifiche soprattutto in campo economico, trincerandosi dietro un "aspettate e vedrete" che può stare bene sulle labbra anche di chi non sa - perché ancora non glielo hanno detto - ma vuol far credere di sapere. E' sicuramente presto per dare giudizi, ma non per essere pervasi da dubbi. Nel Regno Unito esiste un governo effettivo ed un "governo-ombra"; anche da noi in passato il centrosinistra ha formato dei propri governi-ombra quando era all'opposizione. In questi casi è chiaro chi governa e chi sta a guardare. Forse qui da noi sta accadendo l'opposto: un "governo-ombra" - dalla faccia poco presentabile - che governa appunto nell'ombra (di ridenti vallate elvetiche, sebbene con ufficio stampa a Roma), ed un governo ufficiale che - in cambio di una scintillante ma innocua play-station con la quale si gioca al governo della Repubblica - ci mette la faccia, dato che, a differenza di quella tenuta nell'ombra, questa è giovane ed accattivante.

Il dubbio di decisioni già assunte “altrove” sembra confermato anche da una curiosa sequenza di dichiarazioni sulle misure economiche. In sede europea, Oli Rehn dopo l'insediamento del governo ha dichiarato: “Padoan sa cosa deve fare”. Pochi giorni dopo, il neo ministro all'Economia Padoan ha rilanciato: ”Il governo sa cosa c'è da fare” e Renzi, alla sua prima uscita a Bruxelles, ha confermato “L'Italia sa perfettamente cosa deve fare”.
Qui tutti lo sanno che cosa c'è da fare, ma non ce lo dicono. Siccome però, alla fine, quello che c'è da fare toccherà farlo a noi, potrebbero avere almeno la compiacenza di dirci cosa?


martedì 25 febbraio 2014

L'oblio di Eugenio Corti

E' passata quasi sotto silenzio la scomparsa di Eugenio Corti (1921-2014), avvenuta a Besana Brianza il 4 febbraio scorso.  “Eugenio Corti chi?”. La domanda sorgerà  spontanea in molti a sentire il nome di questo scrittore brianzolo. La sua opera principale, monumentale, è “Il cavallo rosso”: un'opera di grande respiro, ponderosa, scritta forse con uno stile letterario non eccelso ma capace di raggiungere l'obbiettivo al quale dovrebbe tendere ogni opera letteraria, quello di avvincere il lettore e toccarne indelebilmente l'anima. Sullo sfondo della Brianza laboriosa e solidale nella quale sono radicati i personaggi, fortemente avvinta ai suoi valori, il romanzo, con un sottofondo autobiografico, passa dall'agghiacciante cronaca della rovinosa ritirata dal fronte russo nell'ultima guerra alla lotta partigiana, ai primi anni dell'Università Cattolica a Milano con la figura di Padre Agostino Gemelli, alla liberazione e al dopoguerra con la ripresa della libera competizione tra opinioni diverse, alle molte delusioni che ne seguirono dopo i primi anni eroici della salvezza democratica e della ricostruzione. 
Certo, Corti non è stato – come oggi si direbbe – bipartisan. No, per lui il bene stava da una parte ed il male dall'altra e in tanti passi de “Il cavallo rosso” ciò emerge, ma non disturba il lettore sereno: suscita anzi un senso di vicinanza e induce ad uno sforzo di comprensione. Questo dividere il mondo in due è forse il limite maggiore di Corti ed è stato pagato duramente col più rigoroso isolamento nel panorama letterario italiano. Lui, però, il bene ed il male l'aveva visto coi suoi occhi alle massime espressioni ed un po' di credito gli va dato, soprattutto da parte nostra che queste categorie le conosciamo per sentito dire e le trattiamo con un po' di supponenza. In questa epoca nella quale ogni giorno ci vengono pomposamente presentate come capolavori opere letterarie con le gambe corte e la sintassi sbilenca (e sotto sotto si scopre sempre la manina della politica), l'oblio nel quale è stato relegato Eugenio Corti, grazie a quella stessa manina,  pare esemplare di ciò che non dovremmo essere ed invece siamo.   

martedì 18 febbraio 2014

Scherzi e cose serie, molto serie.

Lo scherzo giocato oggi da "La Zanzara" all'ex ministro Barca non è una burla, ma un fatto molto grave.
Fabrizio Barca, esponente della sinistra del PD e già ministro nel governo Monti, è stato raggiunto per telefono da un interlocutore che, fingendosi Vendola ed imitandone la voce, ha avviato un discorso sull'attuale momento politico. Qui Barca, ignaro che si trattasse di uno scherzo,  ha iniziato uno sfogo che ha riguardato il suo dissenso sull'operazione Renzi, giungendo poi a lamentarsi delle pressioni che avrebbe ricevuto per entrare nel governo: ha infatti sostenuto che la staffetta Letta-Renzi è stata sponsorizzata da De Benedetti, proprietario del gruppo editoriale La Repubblica, e che per la formazione del governo lo stesso De Benedetti avrebbe fatto pressioni continue ed insistite - non si è capito se direttamente o tramite giornalisti dipendenti del suo gruppo editoriale -  perché lo stesso Barca accettasse di far parte del governo.
De Benedetti ha subito smentito; una giornalista, citata da Barca, ha precisato di aver sì preso contatti con Barca, però  non su mandato del suo datore di lavoro, ma in quanto giornalista e quindi semplicemente per avere informazioni. La precisazione della giornalista può avere il suo fondamento - e poi si vedrà, se Barca deciderà di essere più preciso - mentre il riferimento a De Benedetti è molto più attendibile proprio per le modalità con le quali la rivelazione è stata carpita all'ignaro ex ministro. 
Partendo da questa oggettiva attendibilità si delinea una situazione molto grave. 
Un cittadino svizzero, quale è De Benedetti, che ha importanti attività imprenditoriali in Italia, anche nel campo dell'informazione ma non solo, sarebbe l'ispiratore, o comunque il cooperatore, di una operazione politica che ha portato alla caduta di un governo della Repubblica Italiana  e si starebbe occupando della scelta dei ministri del nuovo governo. 
E' un fatto unico nel panorama delle democrazie occidentali: un privato cittadino straniero influisce dall'estero sugli equilibri governativi di un Paese nel quale egli è titolare di rilevanti interessi economici. 
Si immagina che nei prossimi giorni la magistratura valuterà la sussistenza di ipotesi di reato in tali interferenze negli aspetti istituzionali della Repubblica Italiana e che agirà di conseguenza.
Sul piano politico, si conferma una convinzione: i conflitti di interesse politica-informazione- imprenditoria devono essere inflessibilmente combattuti, soprattutto quelli occulti, i quali proprio per questo sono più pericolosi per la democrazia di quelli palesi.